Lettori fissi

mercoledì 8 marzo 2023

La matematica ethnic fluid

di Piero Pagliani



Girando su Internet alla ricerca di articoli di matematica di mio interesse, mi sono imbattuto in uno intitolato “Mathematx vivente: verso una visione per il futuro”, di Rochelle Gutiérrez [1].

L'autrice si occupa d'insegnamento della matematica agli studenti universitari, presso l'Università dell'Illinois a Urbana-Champaign e non è una specialista di matematica ma ha un bachelor’s degree in “Human Biology” a Stanford e un PhD in “Social Science” all'Università di Chicago.

Poco male. Nemmeno io ho una laurea in Matematica. Ne ho studiata a iosa, prima per laurearmi, mille anni fa, in Filosofia su un tema ostico e all'epoca ai suoi esordi (una dimostrazione algebrica dell'indipendenza dell'assioma di scelta e dell'ipotesi del continuo) e successivamente nei due anni che ho passato a Fisica (gli amici fisici sanno che mazzo di matematica ci si fa nel biennio). A parte ciò, personalmente sono molto cauto nell'interpretare le “scienze dure” attraverso un'ottica ideologico-politica.

In termini generali ragiono secondo la linea tracciata da Hegel: sebbene ogni scoperta scientifica, ogni progresso, abbia un marchio storico (e quindi sociale e politico) tuttavia è possibile distinguere questo involucro dal contenuto “assoluto”, il “contenuto veritativo”, di tale scoperta [2]. 

Hegel parla di “spirito assoluto”, di “idea-in-sé-e-per-sé”, in un certo senso “liberata” dal tempo e dall'ideologia ad esso contemporanea. E quindi, o si pensa che questo filosofo tedesco fosse un pazzo scatenato, o l'idea-in-sé-e-per-sé non è altro che il “precipitato veritativo intra-permanente” (è un termine provvisorio mio, non hegeliano), delle attività umane in “sospensione” nella Storia e quindi nel transeunte (mentre il superamento del “precipitato veritativo” avviene per critiche interne, mosse dalle condizioni storiche e intrecciate ad esse, secondo quanto spiega Thomas Kuhn in “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” - intendo questo con “intra-permanente”).

La dottoressa Gutiérrez invece non la pensa così. Sostiene che il marchio storico, e in specifico il marchio etnico e di genere, sia indissolubilmente connesso col contenuto della matematica e quindi (“quindi”!) col suo modo di insegnarla. La tesi, nemmeno troppo implicita, è che la Matematica usuale è irrimediabilmente segno del suprematismo bianco e maschile. Non il modo di insegnarla (cosa che si potrebbe anche discutere), ma il suo stesso contenuto.


La dottoressa Gutiérrez dice di sé di essere “Chicanx”: 


«Uso il termine Chicanx (in quanto opposto a Chicano, Chicana/o, o Chican@) come segno di solidarietà con le persone che si identificano come lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, intersessuali, asessuali e doppio-spirito (LGBTQIA2S)» [3]. 


In modo analogo introduce il termine “Mathematx”: 


«Io faccio appello per una re-immaginazione radicale delle matematica, una versione che abbracci i corpi, le emozioni e l'armonia».


Nonostante questi inizi “perplimenti” ho proseguito nella lettura superando anche l'insopportabile stile accademico di esposizione costellato da veri e propri fuochi d'artificio citazionistici [4]. La Gutiérrez pur ribadendo qua e là che non pensa che tutta la matematica occidentale sia da buttar via mentre tutta quella etnica sia rose e fiori, finisce proprio per cercare di dimostrare che la matematica occidentale in sé e per sé è maschilista e suprematista così come il suo insegnamento. Per superare questi difetti essa dovrebbe farsi iniettare dosi massicce di matematica etnica. Perché questa è una delle nozioni oggi più discusse nelle accademie statunitensi: “Etnomatematica” [5].

In realtà la Gutiérrez non fornisce nemmeno un esempio di tale matematica, ma si limita a dire che questa contaminazione, questa «ecologia delle conoscenze» armonizzerà «i modi in cui cerchiamo di connettere, i problemi che cerchiamo di risolvere, i modi in cui invitiamo la gioia nelle nostre vite». 

Questi precetti morali, si rincorrono ripetutamente nello scritto, anche nei titoli dei capitoli («Seeking/Performing Patterns for Problem Solving and Joy», assieme all'inevitabile slogan (ormai un puro termine, che mi è diventato odioso, spogliato di ogni contenuto concettuale) di “sostenibilità” («sustainability in mathematics education», «mathematics is in the service of sustainability»).

C'è stato però un attimo che mi ha fatto sperare:


«Per i matematici, l'estetica può servire da precursore dell'intuizione nel senso che essi non si basano su un senso della logica e della deduzione ma su un senso generale di come le cose si connettono assieme (Burton 1999), spesso illuminando un'unità di significati e di valori. In questo senso, l'intuizione e lo stupore possono condurre alla gioia e alla scoperta (Sinclair and Watson 2001). In altri termini, cerchiamo ciò che è sorprendente e meraviglioso, e tuttavia gli eventi devono rientrare in uno schema più ampio; le parti devono combaciare con il tutto (Gadanidis e Borba 2008)».


Lasciando perdere il fatto che per capire che “le parti devono combaciare con il tutto” non occorre citare nessuno, come non occorre citare Copernico quando si dice che la Terra gira attorno al Sole, a parte ciò, che l'estetica, nel senso proprio di αἴσθησις, sia alla base della scoperta matematica non routinaria, lo sa chiunque abbia dimostrato qualcosa di nuovo (più importante o meno importante non importa, ma nuovo). In uno scritto che ho fatto circolare solo privatamente in cui descrivevo i miei rapporti con la grande scuola matematica polacca (nata per altro a Leopoli, tanto per ricordare i travagli geopolitici di quei luoghi), ad un certo punto scrivevo:

“La produzione matematica è una creazione artistica, non riesce da vigili ma da rimbambiti, quando i freni inibitori della razionalità si rilassano e la mente è libera di esplorare strade e terreni che la razionalità eviterebbe. Poi, quando si ritorna in sé, la razionalità deve controllare ogni particolare di quello che ci siamo sognati in quello stato di semiveglia, ma fa un lavoro ex post. Ex ante interviene ogni tanto, non guida le danze: il disegno complessivo non è affar suo. Oggi, rivedendo alcuni miei risultati di qualche anno fa non riesco assolutamente a capire come mi siano venuti in mente. Siccome non mi drogavo né mi ubriacavo, di sicuro li avrò trovati mentre ero tra il sonno e la veglia”.

Ma la nostra dottoressa - che evidentemente non ha mai avuto in testa un problema matematico da risolvere mentre transitava nello stato ipnagogico, ma procede per sentito dire - stiracchia e strapazza questo punto fino a teorizzare la pratica della scoperta matematica come gioia reciproca, come scambio di diversità etniche e biologiche: 


«La versione corrente di ciò che conta come “bello” in matematica tende a non riflettere la diversità del nostro mondo». 


E questa visione si riflette sulle proposte di revisione della didattica: 


«Per me, “essere piacevole” include non solo il modo giocoso in cui molti matematici “puri” inventano nuovi campi … ma anche come le altre persone fanno matematica per/con noi».


In base alla mia esperienza, tutto questo rimanda a un paradigma della pedagogia progressista liberal di stampo anglosassone introdotto molti anni fa, basato sul cosiddetto “autoapprendimento” e sulla cosiddetta “autocorrezione”.

Mi ci imbattei quando mi occupavo di Sistemi Esperti (un ramo dell'Intelligenza Artificiale). Basilare per questi sistemi è l'elicitazione della conoscenza, “knowledge elicitation”, cioè l'estrazione della conoscenza dall'esperto, o più spesso da un team di esperti, del determinato campo in oggetto (ad esempio un settore della medicina). E' quindi basilare capire come si forma la conoscenza, da cui il mio interesse di allora per il rapporto insegnamento-apprendimento.

Dopo l'elicitazione della conoscenza si passa al problema della sua “rappresentazione” e infine a quello delle regole per il suo utilizzo (i cosiddetti “motori inferenziali”). Ma mentre questi passi si basano su un set di tecniche formali abbastanza chiare (anche se in costante miglioramento) l'elicitazione della conoscenza deve fare i conti con un problema di base: in generale il vero esperto non sa “raccontare” la propria conoscenza. Per fare un esempio, se lo scacchista neofita sa descrivere passo passo la logica con cui ha fatto una certa mossa, sulla base dei principi basilari degli scacchi, man mano che si sale di livello questo diventa meno possibile, le regole si “disperdono” nell'ambiente del problema da risolvere, un fenomeno che in alcuni contesti, ad esempio il Knowledge Management, si chiama “tacit knowledge”: 


«Piuttosto che essere osservatori esterni che prendono decisioni o eseguono azioni consce, gli specialisti (masters) tendono ad essere un tutt'uno con l'ambiente quando dispiegano le loro abilità nel loro dominio, una completa inabitazione in termini polanyiani» [6].


Se ciò contesta l'idea dell'attività scientifica come impersonale e impermeabile all'emotività o alle scelte personali dello scienziato (come per altro testimoniato dalle vicende di William Lawvere e di Alexander Grothendieck che ho ricordato nel mio scritto inedito sopra citato [7]), tuttavia la sua estremizzazione ideologica ha portato ai guasti di una pedagogia dove l'educatore non deve in linea di principio né insegnare né correggere, ma fungere da demiurgo in attesa che l'allievo “reinventi” da solo lo scibile, attraverso i suoi tempi e le sue preferenze, o le sue gioie come vorrebbe la Gutiérrez. Cosa ovviamente insensata, visto che la conoscenza umana è frutto della stratificazione di millenni. E insensata perché si tratta un principiante come un esperto, creando così delle difficoltà ai danni principalmente dei più deboli, dei meno attrezzati dalla propria classe.

Non sto esagerando: nei convegni a cui partecipavo per il mio lavoro, diversi anni fa, rinomati speaker statunitensi sostenevano né più né meno quelle teorie pedagogiche.

E Rochelle Gutiérrez, sostiene oggi cose analoghe (e correlate) non in un pourparler da salotto radical chic durante un giro di spinelli (certi suoi passaggi stralunati mi hanno fatto veramente pensare al “fumo”), ma in una memoria di ben 25 pagine di un convegno della Hoosier Association of Mathematics Teacher Educators, il 39° meeting annuale del North American Chapter of the International Group for the Psychology of Mathematics Education. Siamo nel 2017. La cancel cultur aveva già preso piede da un pezzo e sebbene non ci si trovi di fronte a una proposta di “cancel mathematics”, sicuramente possiamo parlare di “woke mathematics”, ovvero, come proposto e rivendicato, di “Mathematx”, una “x” che, possiamo dire, sta quindi per “ethnic fluid” in analogia della “x” che sta per “gender fluid” in “Chicanx”. 


A mio avviso qui però siamo anche di fronte a movimenti pseudoculturali usati in modo spregiudicato come trampolini di lancio per carriere accademiche. Non c'è nulla di equo, né di comunitario, né di sostenibile in questo. Ci sono le lotte di potere tradizionali, solamente condotte in modo meno serio. Se una volta i baroni costruivano la loro posizione in base alla conoscenza, alla cultura, all'intelligenza e ai maneggi, oggi vediamo improvvisazioni, pseudocultura, furbizia e maneggi evoluti in PR, in ammiccamenti a chi è più vociferante e più influente in certi ambienti, dove l'influenza non ha nessun rapporto con una visione seria, autorevole e responsabile di un dominio di conoscenza.

Purtroppo questo degrado ha un brand: “Sinistra”. Si può sostenere quanto si vuole che è un brand indebito, ma è un regalo alla destra portato su un piatto d'argento, come molte altre cose. 

E purtroppo non è nemmeno così tanto indebito, se un docente universitario statunitense ha dovuto scrivere «sono un professore liberal, ma i miei studenti liberal mi terrorizzano». Così è riportato in un'inchiesta intitolata “Coccolare [o viziare] la Mente Americana: Come Buone Intenzioni e Cattive Idee Stanno Preparando una Generazione per il Fallimento” [8].

Un lungo “trend” che mischia politicamente corretto e approccio epistemologico post-strutturalista e de-costruttivista post-moderno, come ho accennato in una nota di un altro scritto [9].


E' una deriva che alcune menti attente di sinistra hanno tentato di arginare, come Noam Chomsky [10]. O come Alan Sokal e Jean Bricmont che in “Imposture intellettuali”, prendendo atto che l'articolo beffa di Sokal intitolato “Trasgredire i confini: verso una trasformazione ermeneutica della gravità quantistica”, sottoposto alla rivista “Social text”, una delle principali riviste di studi culturali postmoderni pubblicata dalla Duke University, fosse stato accettato con giudizi ammirati invece di essere rispedito al mittente accompagnato da sarcastiche risate, si scatenarono contro le cialtronaggini pseudo-scientifiche dei grandi nomi del “de” e del “post” (de-costruzionismo, post-modernità, ecc...) [11].

In mezzo al miscuglio di “intenzionali stupidaggini” di cui era infarcito l'articolo beffa, si poteva leggere il commento di Sokal a questa citazione del famoso saggio di Luce Irigaray “II soggetto della scienza è sessuato?”:


«la scienze matematiche si interessano, nella teoria degli insiemi, agli spazi chiusi e aperti. […] Si applicano abbastanza poco alla questione del semiaperto, degli insiemi vaghi [ensembles flous], di tutto quello che analizza il problema dei bordi [...]».


Invece di spiegare che quelle tre righe inanellavano una serie di inesattezze, confusioni e scemenze [12] nella sua beffa Alan Sokal commentava compiacente:


«Nel 1982, quando apparve per la prima volta il saggio di Irigaray questa costituiva una critica incisiva: la topologia differenziale aveva tradizionalmente privilegiato lo studio di quelle che sono note tecnicamente come “varietà senza bordo”. Tuttavia, nella decade trascorsa, sotto l'impulso della critica femminista, alcuni matematici hanno indirizzato nuovamente la propria attenzione alla teoria delle “varietà con bordo”». 


Siccome era proprio in quel periodo che Helena Rasiowa mi introduceva alla teoria dei rough sets, una  sorta di quegli “ensembles flous” così tanto sollecitati da Luce Irigaray, mi viene da ridere a pensare che questa grande matematica polacca era, senza saperlo, una sacerdotessa del femminismo post-strutturalista nelle scienze e io, suo fedele allievo, un adepto di questa teologia (e quindi, ovviamente senza saperlo, cultore dell'essere  borderline).

Dato che le cose non cambiarono in meglio, un analogo tentativo fu operato anni più tardi da Peter Boghossian e James Lindsay con la loro beffa “Il pene concettuale come costrutto sociale” che fu pubblicata su “Cogent Social Sciences”, con peer review entusiaste del tipo: “E’ un articolo meraviglioso, incredibilmente innovatore, ricco di analisi ed estremamente ben scritto e organizzato” [13]. 

Innovatore di sicuro, visto che si “dimostrava” che il pene è causa del riscaldamento globale:


«il cambiamento climatico è un esempio genuino di società iper-patriarcale che metaforicamente si diffonde nell'ecosistema globale»


e che il sedersi dell'uomo a gambe aperte 


«è chiaramente un'occupazione dominante dello spazio fisico, come se volesse stuprare lo spazio vuoto intorno a lui, che è meglio compresa attraverso l'isomorfismo del machismo braggadocio con l'ipermascolinità tossica».


Tesi che gli editori della rivista devono aver ritenuto pari alla sfolgorante affermazione con cui il saggio iniziava: 


«Le prove scientifiche e meta-scientifiche androcentriche che il pene è l’organo riproduttivo maschile sono considerate schiaccianti e decisamente libere da contestazioni».


Nelle intenzioni di Sokal, la sua provocazione avrebbe dovuto servire a «proteggere la sinistra da una moda passeggera». Purtroppo non c'è riuscito. Non si trattava di una moda, ma di una costruzione politica con scopi che si sono via via precisati e chiariti: si attaccava il dominio del maschio bianco per nascondere o giustificare gli attacchi sanguinosi del dominio imperiale. Si distorceva e corrompeva la visione del mondo di sinistra per rivolgerla contro i suoi propri scopi originari. Non è un passaggio misterioso: la critica “artistica” alla società di massa e alla catena di montaggio disumanizzante ha prodotto la celebrazione dell'individuo, ma dimenticandosi del preciso monito di Marx: «Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale» (Ideologia Tedesca, cap. IV). Grazie a questa “dimenticanza” l'imperialismo occidentale ha potuto lasciar perdere l'obsoleto “fardello dell'uomo bianco” e sbandierare al suo posto, attingendo a man bassa dall'ideologia di sinistra, il “fardello della democrazia, dei diritti civili e dei diritti umani” (cosa che ovviamente non impediva nella pratica di massacrare bambini o di scatenare fondamentalisti omofobi e intolleranti contro governi laici e tolleranti).

Non si trattava, quindi di una moda, e nemmeno di un fenomeno “passeggero”, bensì generazionale, perché generazioni intere, quelle cresciuta nella e con la crisi sistemica, e che nei suoi meandri si sono  accomodate, sono totalmente immerse in queste idee.

Prendiamo ad esempio Elly Schlein. Quel che accade nel PD m'importa poco, ma se devo dare un giudizio è innanzitutto questo: temo che la nuova segretaria metterà il suggello a  questa immersione del suo partito nella sottocultura imperiale liberal anglosassone. Se subirà scissioni saranno paradossali, cioè dovute a “vecchi” esponenti della traiettoria PCI-DS-PD, cioè persone con una reminiscenza storica, che invece la Schlein non possiede per questioni anagrafiche. La nuova segretaria del PD concretizzerà le sue buone intenzioni, che molto teoricamente potrei anche condividere, con cattive idee e ci farà rimpiangere persino i pessimi liquidatori del comunismo italiano. 

Non perché è cattiva, ma perché è così che l'hanno disegnata. 

Come tutti noi d'altronde. Ma c'è sempre la possibilità di ridisegnarsi, occorre sforzo, ricordo, immaginazione, apertura sul mondo, sulla storia e sulle persone.

Ma se per caso, per qualche miracolo, la nuova segretaria del PD cercherà di ridisegnarsi da sola, deve sapere che perderà seduta stante la leadership e i favori dei media.


Alan Sokal scrisse:


«L'accettazione da parte di Social Text del mio articolo esemplifica l'arroganza intellettuale di una teoria – la teoria letteraria postmoderna – portata alle sue estreme conseguenze». 


Confrontate la terminologia e il modo di concatenare le parole (“formare concetti” è troppo) della nostra Rochelle Gutiérrez nel 2017, con quelli, qui sotto, utilizzati nel 1996, venti anni prima, da Alan Sokal nella sua beffa per solleticare gli editori della rivista:


«le scienze postmoderne sembrano convergere verso un nuovo paradigma epistemologico, che può ricevere la denominazione di prospettiva ecologica, nel senso ampio di “riconoscere l'interdipendenza fondamentale di tutti i fenomeni e l'immersione degli individui e delle società nella struttura ciclica della natura” [qui Sokal citava il saggio di Fritjof Capra “The role of physics in the current change of paradigms”]».


E' impressionante: sono identici. Quindi nonostante due cocenti critiche che hanno avuto una larga risonanza internazionale, nonostante la richiesta ampia e di importanti nomi perché si riconsiderassero “the Humanities”, le cose sono addirittura peggiorate e gli studi umanistici negli Usa spesso si rivelano essere vere e proprie frodi intellettuali e accademiche che licenziano quelli che ormai iniziano ad essere definiti “credentialed ignoramuses”. Che non sarebbe così drammatico se non li ritrovassimo tra la classe dirigente. Invece è tragico perché significa la riproduzione della mentalità del dominio globale e della fluidificazione della società, dello scontro a tutti i costi invece del dialogo e del disinnesco dei conflitti. In altri termini - quei termini topologici così vezzeggiati dai maîtres à penser post-moderni - significa la riproduzione del serrarsi al proprio interno o del conquistare con la chiusura ciò che è al confine, il contrario esatto della teorizzazione della bellezza dei border, dove ogni “agorà” (ogni intorno) di un punto sta in parte dentro e in parte fuori, è situato in una zona di scambio e di incrocio che come tale deve essere preservata.

E' un problema politico e di civiltà.

 

Note


[1] “Living mathematx: Towards a vision for the future”. La traduzione delle citazioni è mia.

https://www.researchgate.net/publication/325514665_Living_mathematx_Towards_a_vision_for_the_future


[2] Se è vero, ad esempio, che gli studi di fisica nucleare sono stati molto indirizzati dagli scopi militari, tuttavia l'aspetto veritativo di questi studi (che esiste, altrimenti le bombe atomiche non funzionerebbero) deve essere tenuto distinto dal loro campo applicativo.

Sotto questo aspetto, l'interpretazione delle figure dello “Spirito Assoluto” hegeliano è quella proposta da Costanzo Preve in vari scritti, come «forme permanenti e trans-storiche dell’attività umana eterna di riproduzione ed interpretazione individuali e collettive del mondo».


[3] Facebook offre la scelta tra 56 generi diversi oltre ai due tradizionali:

https://www.washingtonpost.com/news/arts-and-entertainment/wp/2014/02/13/facebook-will-now-allow-users-to-identify-as-trans-bi-androgynous-or-any-other-gender-they-want/


[4] Ad esempio: «we see the limits of Western mathematics/science practices as a means for intervention (Berkes et al. 2000; Brayboy and Maughan 2009; Cajete 1999; Deloria 1979; González 2001; Heinrich, et al. 1998; LaDuke 1994; Little Bear 2000; 2009; Tallbear 2013; Watson-Verran and Turnbull 1995)».


[5] In sé l'etnomatematica (una nozione introdotta dal matematico brasiliano Ubiratan D'Ambrosio nel 1977 e che non ha un'interpretazione condivisa) descrive cose interessanti (ad esempio sistemi di numerazione diversi, come quello modulo 4 per alcuni riti divinatori, o procedure di memorizzazione di complessi “algoritmi” geometrici, come tra le contadine del Tamil Nadu) e pone questioni importanti relative ai rapporti tra modi locali e modi standard di fare e insegnare matematica, similmente, se vogliamo, a ciò che fanno gli studi etnomusicali. Anche i suoi risvolti nell'educazione matematica sono da prendere in considerazione, come in alcuni casi una sorta di approccio “bilinguistico” che fa convivere la matematica standard assieme a quella tradizionale locale. 

Alcuni anni fa fui invitato a Calcutta come speaker a un convegno (aperto da Gopalkrishna Gandhi, nipote del Mahatma) sui rapporti tra la logica formale occidentale e la logica classica indiana, la Navya-Nyāya. Per tutto il tempo dovetti bisticciare, bonariamente, con un docente di Cambridge che riteneva “stravagante” la Navya-Nyāya, mentre io, invece, la ritenevo affascinante e stimolante. Tanto che l'anno seguente, al Dipartimento di Scienze Cognitive della Jadavpur University di Calcutta, lanciai il cuore oltre l'ostacolo e con molta faccia tosta spiegai come io, da bravo e impenitente occidentale, con un miscuglio, questo sì stravagante, di Aristotele, Duns Scoto, Bertrand Russell e Teoria della Dimostrazione, interpretavo una figura deduttiva centrale della logica indiana. Cosa che fece aprire un vivace dibattito tra gli studiosi indiani lì presenti, che io stetti solo ad ascoltare perché ci capivo poco. A dire: non bisogna avere paura e meno che meno disprezzo per l' “altro”. Cercare di capirlo, specie se espone istanze lontane da quelle a cui siamo abituati, anche spiazzanti, porta sempre ad un arricchimento.

Per quanto riguarda questa problematica e la questione di genere, una delle ricercatrici a cui sono più legato, è una matematica transgender lesbica indiana. Io la ritengo geniale e i suoi lavori sono spesso sottoposti a me per il referaggio per due motivi: 1) sono lunghi e difficili, 2) fanno a volte riferimento alla cultura lesbica (può sembrare strano ma è così). Insomma, ci vuole anche una dose di affetto per affrontarli, dose che pare io abbia. 

In conclusione, se non si hanno le fette di salame sugli occhi non ci sono questioni né “gender” né “etniche”. Il problema è creato artificialmente da un gioco di specchi e delle parti tra una reazione progressista e una reazione torbidamente conservatrice.

Per riprendere ora l'analogia degli studi etnomusicali, la musica “colta” e quella “popolare” non sono mai stati compartimenti stagni. Ricordo che il grande musicista boemo Antonín Dvořák ne era così consapevole che invitato ad assumere la direzione del Conservatorio Nazionale di New York, lasciò allibiti i cultori wasp della musica classica asserendo che come quella europea si era basata sui temi popolari, una musica classica genuinamente americana non poteva far altro che basarsi su quella popolare afroamericana (si veda ad esempio il magnifico saggio di Alex Ross “Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo”, Bompiani 2011).

Ovviamente in matematica le cose sono più complicate, perché gli input stessi dell'attività matematica sono complessi. Si pensi, ad esempio, a quelli di Fibonacci, legati alla sua attività di mercante, alla definizione dei numeri reali tramite i “tagli” fatta da Dedekind e dovuta ad esigenze di insegnamento, e a quelli di natura “estetica” che portarono Ricci-Curbastro e Levi-Civita al calcolo tensoriale.

Il problema è che a fianco ad approcci seri, ponderati e moderati -e  difficili -, emergono, e sono vociferanti, le loro torsioni ideologiche semplicistiche ed estremiste, di cui la Gutiérrez nel saggio qui in oggetto mi sembra una campionessa.


[6] A. Axelsson, “Knowledge elicitation as abstraction of purposive behaviour”. Upsala Universitet, 2019. In un caso, relativo alla progettazione di un sistema esperto medico, per risolvere questo problema ho applicato una tecnica di “scavo” nel database delle decisioni dei medici coinvolti nel progetto, chiamata “knowledge discovery in database” o “data mining”, basata proprio su quegli “insiemi sfumati” così ferventemente tirati in ballo da Luce Irigaray.


[7] L'apolide Alexander Grothendieck, forse il maggior matematico del Novecento, smise di fare matematica per convinzioni etiche e politiche, e il grande matematico statunitense William Lawvere collegava la potente teoria dei “funtori aggiunti”, a cui aveva contribuito in modo decisivo, alla dialettica di Hegel e di Marx.


[8] Greg Lukianoff e Jonathan Haidt: “The Coddling of the American Mind: How Good Intentions and Bad Ideas Are Setting Up a Generation for Failure”: 

https://www.amazon.com/Coddling-American-Mind-Intentions-Generation/dp/0735224897


[9] https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/24927-piero-pagliani-slittamento-di-paradigma.html


[10] https://paradoxpolitics.com/2021/02/noam-chomsky-cancel-culture-harpers-letter


[11] Alan Sokal, Jean Bricmont, “Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra filosofia e scienza?”. Garzanti, 1999. Prima edizione, Francia 1997. 


[12] 1) Di insiemi aperti e chiusi si occupa la topologia, non la teoria degli insiemi. 2) Gli intervalli semiaperti sono utilizzatissimi. 3) Il bordo, cioè la frontiera, fa parte dei concetti di base della topologia: è la chiusura di un insieme meno il suo interno, cioè meno il più grande insieme aperto contenuto nell'insieme. 4) Infine gli “ensembles flous”, cioè i “fuzzy sets”, furono introdotti dal matematico statunitense Lotfi Zadeh  nel 1965, cioè oltre vent'anni prima dell'articolo della Irigaray e la letteratura che li riguarda è sterminata. Come si vede, questa nota studiosa non sapeva ciò di cui stava parlando, andava per assonanze.


[13] https://www.skeptic.com/downloads/conceptual-penis/23311886.2017.1330439.pdf

mercoledì 1 marzo 2023

FINALMENTE TORNA L'ONTOLOGIA
GRANDEZZA E ATTUALITÀ' DELL'ULTIMO LUKACS



Le pagine che seguono contengono ampi stralci della mia Prefazione alla nuova edizione della Ontologia dell'essere sociale di Gyorgy Lukács, che l'editore Meltemi manda in libreria fra pochi giorni. Per rendere più scorrevole la lettura ho eliminato una buona metà delle note contenute nel testo originale, lasciando solo quelle indispensabili. Inoltre le citazioni del testo di Lukács che trovate in queste note si riferiscono all'edizione precedente (PIGRECO) dell'Ontologia in quanto non ho avuto tempo né modo di aggiornare i riferimenti alla nuova edizione.







Se la Ontologia dell'essere sociale fosse stata pubblicata nel 1971 (l'anno di morte dell'autore) avrebbe certamente influito sulla valutazione della grandezza di Lukács, elevandolo  al ruolo di più importante filosofo marxista - e fra i maggiori filosofi in generale – del Novecento. Invece quest'opera monumentale, la cui stesura richiese un decennio di lavoro, tardò a vedere la luce  perché l'autore continuava a rimaneggiare il testo dei Prolegomeni che, malgrado la loro funzione di sintesi introduttiva ai temi della Ontologia, furono scritti per ultimi;  inoltre perché gli allievi che ebbero a disposizione il manoscritto dopo la sua morte ne ritardarono la diffusione (la traduzione italiana della seconda parte uscì nel 1981, mentre la versione originale apparve in tedesco dal 1984 al 1986), ma soprattutto alimentarono un pregiudizio negativo nei confronti dell'opera prima che fosse resa disponibile ai lettori.  Questi motivi, unitamente al clima storico, ideologico e culturale antisocialista e antimarxista degli anni Ottanta generato dalla rivoluzione neoliberale, dalla svolta eurocomunista di quei partiti europei che interpretarono la crisi del socialismo come “crollo del marxismo”, nonché dalla svolta libertaria e individualista dei “nuovi movimenti” post sessantottini, ha fatto della Ontologia una delle opere più sottovalutate del Novecento. Al punto che il pensiero di Lukács, mentre è rimasto oggetto di culto per minoranze intellettuali non convertitesi al mainstream neoliberale, ha continuato ad essere identificato con opere precedenti come la Distruzione della ragione, e ancor più con Storia e coscienza di classe (1), un  libro che lo stesso autore considerava “giovanile” e superato (...)


Ad alimentare la diffidenza con cui l'ultimo lavoro di Lukács venne accolto è probabile che abbia contribuito anche il titolo: evocare i concetti di ontologia ed essere non poteva non suonare sospetto alle orecchie della “moda” allora prevalente in campo marxista, cioè al progetto di “depurare” il pensiero del maestro dall'eredità hegeliana e dalle sue implicazioni “idealiste” e “metafisiche”. Il che è tanto più paradossale, in quanto l'intento dell'ultimo Lukács era precisamente quello di superare il proprio punto di vista giovanile, rinnegato in quanto più hegeliano di Hegel: “Il proletariato come soggetto-oggetto identico della storia dell'umanità, scrive Lukács nel 67, non è quindi una realizzazione materialistica che sia in grado di superare le costruzione intellettuali idealistiche: si tratta piuttosto di un hegelismo più hegeliano di Hegel, di una costruzione che intende oggettivamente oltrepassare il maestro nell'audacia con cui si eleva con il pensiero al di sopra di qualsiasi realtà”. Il bersaglio è qui il modo in cui Storia e coscienza di classe tratta il tema dell'emergenza di una coscienza di classe che non sarebbe altro “che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale”, per cui il proletariato viene assimilato a una entità ideale investita del compito di attuare “la cosciente realizzazione dei fini dello sviluppo oggettivo della società” (1). Si tratta di una rappresentazione che rispecchia i canoni della logica hegeliana, per cui il proletariato ridotto a oggetto dal processo di valorizzazione del capitale si fa soggetto di sé stesso ascendendo allo stato di soggetto-oggetto identico. Ma, si chiede Lukács, “il soggetto-oggetto identico è  qualcosa di più che una costruzione puramente metafisica?”; dopodiché si risponde: “E' sufficiente porre questo interrogativo con precisione per constatare che ad esso occorre dare una risposta negativa. Infatti, il contenuto della conoscenza può anche essere retro-riferito al soggetto conoscitivo, ma non per questo l'atto della conoscenza perde il suo carattere alienato". 


L'ultimo Lukács prende le distanze anche dal modo in cui, in Storia e coscienza di classe, venivano  presentati i concetti di estraneazione e di totalità. L'estraneazione viene posta sullo stesso piano dell'oggettivazione, ma così, argomenta Lukács, si rischia di giustificare il pensiero borghese che fa dell'estraneazione una eterna “condizione umana”, infatti, dal momento che il lavoro stesso è una oggettivazione e che tutti i modi di espressione umana, come la lingua, i pensieri e i sentimenti, sono tali, “è evidente che qui abbiamo a che fare con una forma universalmente umana dei rapporti degli uomini fra loro” (2); per cui occorre ammettere che “l'oggettivazione è un modo naturale – positivo o negativo – di dominio umano del mondo, mentre l'estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanze sociali”. Passiamo alla totalità. In Storia e coscienza di classe leggiamo: “l'isolamento astrattivo degli elementi, sia di un intero campo di ricerca sia dei particolari complessi problematici o dei concetti all'interno di un campo di ricerca è certamente inevitabile. Ma il fatto decisivo è se si intende questo isolamento soltanto come mezzo per la conoscenza dell'intero...oppure se si pensa che la conoscenza astratta del campo parziale mantenga la propria “autonomia”, resti fine a se stessa...per il marxismo non vi è in ultima analisi una scienza autonoma del diritto, dell'economia, della storia, ecc. ma soltanto una scienza unica e unitaria – storico-dialettica – dello sviluppo della società come totalità”(3). E ancora: “l'aspetto che fa epoca nel materialismo storico consiste nel riconoscimento del fatto che questi sistemi (economia, diritto e stato) apparentemente del tutto indipendenti, definiti ed autonomi, sono meri momenti di un intero ed è perciò possibile sopprimere la loro apparente autonomia". Viceversa, nella Ontologia, come sottolinea Tertulian nella sua “Introduzione”, la totalità sociale è concepita come un “complesso di complessi”, nel quale ogni complesso appare eterogeneo rispetto agli altri e risponde ad una propria logica, irriducibile a quelle altrui (4). (...) 


Una foto del giovane Lukács



La svolta ontologica, tuttavia, è caratterizzata soprattutto dal rovesciamento di prospettiva che pone la categoria del lavoro a fondamento di una corretta interpretazione del contributo di Marx alla comprensione della storia umana. Storia e coscienza di classe, scrive  Lukács nella Prefazione del 67, “tendeva ad interpretare il marxismo esclusivamente come teoria della società, come filosofia del sociale, e ad ignorare o a respingere la posizione in esso contenuta rispetto alla natura”. Pur sforzandosi di rendere intelligibili i fenomeni ideologici a partire dalla loro base economica, quel testo sottrae all'ambito dell'economia la sua categoria fondamentale, vale a dire “il lavoro come ricambio organico della società con la natura”. Invece di partire dal lavoro, Storia e coscienza di classe prendeva le mosse dalle strutture complesse dell'economia merceologica evoluta, ma così l'esaltazione del concetto di praxis, privato del lavoro come sua forma originaria e modello,  si converte in contemplazione idealistica (5). Solo prendendo le mosse dal lavoro come fondamento e modello si può assumere un corretto approccio genetico all'analisi del processo storico: “Dobbiamo tentare di cercare le relazioni nelle loro forme fenomeniche iniziali e vedere a quali condizioni queste forme fenomeniche possano divenire sempre più complesse e sempre più mediate”. (6) (...)


Per  Lukács, il contributo di Marx alla comprensione della storia umana può essere compreso solo se si parte dal fatto che il lavoro è la categoria centrale del suo pensiero, nella quale tutte le altre determinazioni sono contenute in nuce. Parliamo qui del lavoro utile, del lavoro come formatore di valori d’uso che “è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini” (7). Il lavoro così inteso non è una delle tante forme fenomeniche dell’agire finalistico in generale, ma è “l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale”.  Il ricambio organico fra uomo e natura differisce da quello delle altre specie viventi in quanto non è governato dall’istinto, ma dalla posizione consapevole dello scopo, ed è appunto per questa via che l’agire finalistico entra a far parte della realtà materiale, perdendo l’aura di fenomeno trascendente, ideale. Per Marx, argomenta Lukács, il lavoro risulta dunque il modello di ogni prassi sociale e solo tenendo conto di ciò la definizione del pensiero marxiano come “filosofia della prassi” può essere colta nel suo significato più rigoroso. 


Nella misura in cui l'economia, intesa come  processo di produzione e riproduzione della vita umana, entra a fare parte del pensiero filosofico, diviene possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica, ma ciò non significa che l'immagine marxiana del mondo sia fondata sull'economismo. Se infatti il pensiero considerasse il lavoro isolandolo dalla totalità del fenomeno sociale, rimuoverebbe il fatto che “ la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono bensì dal lavoro, non però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente”(8) Da un lato, nessuno dei fenomeni sociali appena evocati può essere compreso ove lo si consideri isolato dagli altri; dall'altro lato non vanno dimenticati, sia la loro scaturigine originaria dal lavoro, sia il fatto che, benché il lavoro continui a essere il momento soverchiante, non solo non sopprime queste interazioni ma al contrario le rafforza e le intensifica (9) Quest’ultimo passaggio aiuta a comprendere come l'ontologia materialistica di Lukács sia lontana da tentazioni meccaniciste, come conferma la seguente citazione: “Solamente nel lavoro, quando pone il fine e i suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente, - dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano la natura – ma invece un compiere trasformazioni nella natura stessa che a partire di qui, dalla natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili”. A partire da tale momento, la coscienza non può più essere considerata un epifenomeno ed è prendendone atto che il materialismo dialettico si separa da quello meccanicistico.


Va inoltre sottolineato il fatto che ogni avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza, mentre influisce  sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, non ne elimina mai la sovradeterminazione da parte del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura: per quanto radicali possano essere gli effetti trasformatori generati dalla progettazione cosciente, scrive Lukács, “la barriera naturale può solo arretrare, mai scomparire completamente”. A conclusione di questa sintetica descrizione del ruolo che la categoria del lavoro svolge nell'ontologia lukacsiana, segnalo l'attenzione che il filosofo dedica al fenomeno della inversione gerarchica fra il fine e il mezzo del processo lavorativo: “In ogni singolo processo lavorativo concreto il fine domina e regola i mezzi. Se però guardiamo ai processi lavorativi nella loro continuità ed evoluzione storica entro i complessi reali dell’essere sociale, abbiamo una certa inversione di questo rapporto gerarchico, che se non è certamente assoluta e totale, è purtuttavia di estrema importanza per lo sviluppo della società e dell’umanità” (10). Si tratta di un tema che svolge un ruolo importante nell'analisi lukacsiana sull’alienazione e sull’ambiente tecnologico come “seconda natura”. 


Per Lukács il principio della determinazione in ultima istanza della coscienza da parte del fattore economico non esclude il riconoscimento della relativa libertà del fattore soggettivo: il metodo dialettico, scrive, “riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva (…) né uno sviluppo storico privo di leggi (…) né un dominio meccanico 'per legge' dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto e solo la funzione di momento soverchiante” (11). Il modo in cui l'economia svolge tale ruolo di momento soverchiante va ulteriormente approfondito: Marx non sostiene che l'economia determina la coscienza, bensì che non è la coscienza degli uomini a determinarne l'essere sociale ma è piuttosto l'essere sociale a determinarne la coscienza; tuttavia, precisa Lukács, per Marx il mondo delle forme e dei contenuti di coscienza non è prodotto direttamente dalla struttura economica, bensì dalla totalità dell'essere sociale. La funzione soverchiante dell'economia si esercita dunque in modo indiretto, attraverso la mediazione della totalità dell'essere sociale, totalità di cui fanno parte sia l'economico che l'extraeconomico. 


La versione meccanicista del marxismo, nella misura in cui assume in modo unilaterale il principio del ruolo soverchiante dell'economia nel processo storico, attribuisce allo sviluppo delle forze produttive un peso determinante, se non esclusivo, nel processo di emancipazione dell'umanità dal regno della necessità; viceversa Lukács ribatte che il processo di sviluppo economico non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità perché ciò avvenga: “Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. Il fattore soggettivo nella storia, dunque, è certo in ultima analisi, ma solo in ultima analisi, il prodotto dello sviluppo economico, in quanto le alternative davanti a cui è posto vengono provocate da questo processo, e tuttavia in sostanza agisce in modo relativamente libero, giacché il suo sì o no è legato ad esso soltanto sul piano delle possibilità” (12). In altre parole, la libertà che la filosofia della prassi concede al soggetto consiste nella facoltà di decidere in un campo di alternative date: “La determinazione (della coscienza) da parte dell’essere sociale è dunque sempre 'soltanto' la determinazione di una decisione alternativa, di un campo di manovra concreto per le sue possibilità, di un modo di operare, cioè qualcosa che nella natura non compare mai”(13). Non sfugga l'ironia di quel “soltanto”, che sta a significare come sia più che giustificato definire soverchiante il potere di condizionamento dell'economia, senza dimenticare,al tempo stesso, che la libertà del soggetto umano, ancorché vincolata, è smisurata rispetto alla rigida legalità dei processi naturali. (...)


La critica di  Lukács alla concezione meccanicista del marxismo implica, fra le altre cose, la negazione dell'esistenza di finalità immanenti al processo storico, contesta cioè la visione di quei teorici marxisti che cedono alla tentazione di attribuire al processo storico una “direzione” verso un obiettivo finale predefinito. Secondo costoro, “il cammino che dalla dissoluzione del comunismo primitivo, attraverso la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo,  porta al socialismo, sarebbe nella sua necessità in qualche modo preformato (e quindi conterrebbe qualcosa di almeno criptoteleologico)” (14).Contro questa tendenza Lukács ribadisce, da un lato, che non esistono processi teleologici immanenti alla storia, dall'altro lato che l'agire umano finalizzato (che ha nel lavoro la propria radice e il proprio modello) mentre è certamente in grado di mettere in atto processi causali, e anche di trasformare il carattere causale del loro movimento, non è tuttavia in grado di prevedere i propri risultati in misura tale da indirizzarli in modo univoco, dal momento che “le conseguenze causali degli atti teleologici si distaccano dalle intenzioni dei soggetti delle posizioni, anzi spesso vanno addirittura nel senso opposto” (15).


Questa imprevedibilità degli esiti dell'agire umano, condizionato tanto dai vincoli dell'economia quanto dall'ineliminabile peso dei fattori casuali, significa che non è possibile associare al processo storico alcun tipo di legalità? Marx non avrebbe quindi scoperto e descritto le “leggi” di sviluppo della storia umana? La verità è, scrive Lukács, che per Marx le leggi economiche oggettive “hanno sempre il carattere storico-sociale concreto di 'se…allora'. La loro forma generalizzata, la loro elevazione al concetto non è – in contrasto con Hegel – la forma più pura della necessità, e nemmeno, come pensano i kantiani o i positivisti, una mera generalizzazione intellettuale, ma invece, nel senso meramente storico, una possibilità generale, un campo reale di possibilità per le realizzazioni legali concrete 'se…allora'” (16) In altre parole, le “leggi” storiche si distinguono da quelle della natura in quanto sono conoscibili solo post festum, il che non esclude la possibilità di riconoscere l’esistenza di nessi generali, ma impone di ammettere che questi ultimi “si esplicitano nell’essere processuale, non 'come grandi bronzee leggi eterne', che già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, 'atemporale', ma invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali divengono in pari modo visibili sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce” (17) (...)


Nel IV° volume della Ontologia citando un'opera di Gramsci sul pensiero di Croce (18), Lukács esprime un giudizio positivo sulla concezione gramsciana dell'ideologia,  tuttavia precisa che, mentre è vero che i marxisti intendono con ideologia la sovrastruttura ideale che necessariamente sorge da una base economica, dall'altro lato “è fuorviante interpretare il concetto peggiorativo di ideologia, che rappresenta una realtà sociale indubbiamente esistente, come un'arbitraria elucubrazione di singole persone”. Quindi prosegue affermando che, affinché un pensiero possa meritarsi la definizione di ideologia, non può essere  espressione ideale di un singolo ma deve svolgere una funzione sociale ben determinata, (...) quindi scrive: “L’ideologia è anzitutto quella forma di elaborazione ideale della realtà che serve a rendere consapevole e capace di agire la prassi sociale degli uomini. Deriva da qui la necessità e l’universalità di taluni modi di vedere per dominare i conflitti dell’essere sociale”(19). Ogni reazione umana all'ambiente sociale può diventare ideologia, ma Lukács associa la genesi del fenomeno alla nascita di gruppi sociali differenti che condividono interessi comuni contrapporti a quelli di altri gruppi: “In questa situazione è contenuto per così dire il modello generalissimo della genesi delle ideologie, giacché questi conflitti si possono dirimere con efficacia nella società solo quando i membri dell’un gruppo riescono a persuadere se stessi che i loro interessi vitali coincidono con gli interessi importanti della società nel suo intero” (20); in altre parole, la nascita delle ideologie è il connotato generale della società di classe. 


Una cosa è che un gruppo sociale persuada sé stesso del fatto che i propri interessi coincidano con gli interessi generali della società, altra è cosa che riesca a persuaderne anche gli altri gruppi: è nel caso che ciò riesca, argomenta Lukács, che si può ricorrere appropriatamente al termine di ideologia, dopodiché aggiunge che tale pretesa ha successo se e quando l'ideologia in questione è quella dominante, e cita il noto passaggio della Ideologia tedesca che recita: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante”. Estendendo il discorso al conflitto di classe come conflitto fra ideologie, Lukács scrive poi che:  “una teoria può affermarsi socialmente solo quando almeno uno degli strati sociali che in quel momento hanno peso vi vede la strada per prendere coscienza e battagliare intorno a quei problemi che considera essenziali per il proprio presente, quando cioè tale teoria diventa per quello strato sociale anche un’ideologia efficace” (21). In altre parole, per essere una forza materiale in grado di trasformare la realtà, una teoria deve assumere la forma di una ideologia. Ecco perché, al pari di Gramsci, Lukács respinge il punto di vista che attribuisce all'ideologia un carattere necessariamente negativo: a determinare la natura negativa o positiva di una ideologia è in ultima istanza il fine verso il quale essa indirizza l'azione, il fatto se esso coincide con gli interessi delle classi che lottano per emanciparsi dal dominio, o con quelli che intendono conservarlo. 


Antonio Gramsci



Una volta assunto tale punto di vista non è più possibile accettare le tesi di coloro che condanno  l'ideologia in quanto tale. Tesi sospette, argomenta Lukács, ricordando il fatto che le classi dominanti dell'Occidente post fascista, con la complicità delle socialdemocrazie, hanno trasformato  il rifiuto dell'ideologia fascista in rifiuto dell'ideologia tout court, dopodiché “ogni ideologia, ogni tentativo di dirimere conflitti sociali con l’ausilio di ideologie risulta a priori sotto accusa (…) non ci sono più veri conflitti, non c’è più campo di manovra per le ideologie: le differenze sono soltanto 'pratiche' e quindi regolabili 'praticamente' con accordi razionali, compromessi ecc. La deideologizzazione significa perciò illimitata manipolabilità e manipolazione dell’intera vita umana” (22). Il discorso deideologizzante, ironizza Lukács, si fonda su quella “ideologia dell'anti-ideologia” che coincide con l'esaltazione della categoria astratta di “libertà” quale valore salvifico per tutte le questioni della vita. Dopodiché spende parole durissime nei confronti di quegli intellettuali che, per non essere accusati di “fare dell'ideologia”, assumono nei confronti dei poteri dominanti un atteggiamento “critico” in forme “che non vogliono né possono in alcun modo disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo. Questi conformisti non-conformistici, perciò, nonostante le manifestazioni pubbliche verbalmente di forte critica e addirittura di opposizione, rimangono di fatto apprezzati collaboratori della manipolazione universale”. (23) (...)


Lukács nel suo studio



(...) è possibile immaginare una società in cui la relazione fra necessità e libertà assuma  forme più avanzate? La risposta di Lukács prende ancora le mosse dalla categoria del lavoro: a fondare la possibilità (non la necessità!) di una forma sociale più avanzata del capitalismo è il fatto che “il lavoro teleologicamente, consapevolmente, posto contiene in sé fin dall’inizio la possibilità (dynamis) di produrre più di quanto è necessario per la semplice riproduzione di colui che compie il processo lavorativo”. Questa possibilità, prosegue Lukács, ha creato la base oggettiva della schiavitù, prima della quale esisteva solo l’alternativa di uccidere o di adottare il nemico fatto prigioniero; così come ha consentito la nascita delle successive forme economiche fino al capitalismo, nel quale il valore d’uso della forza-lavoro è la base dell’intero sistema, dal che si deduce che “anche il regno della libertà nel socialismo, la possibilità di un tempo libero sensato, riposa su questa fondamentale peculiarità del lavoro di produrre più di quanto occorra per la riproduzione del lavoratore” (24). Tuttavia il regno della libertà potrà essere effettivamente realizzato solo nel comunismo, come scrive Marx nel III libro del Capitale: “il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria”, mentre (sempre secondo Marx) nel socialismo in quanto prima fase del comunismo la libertà “può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca (…) Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” (25). In sintonia con queste parole di Marx, Lukács ritiene che l'economia sia destinata a rimanere anche nel socialismo il regno della necessità, nella misura in cui la lotta dell'uomo con la natura per soddisfare i suoi bisogni non può finire, dato il suo fondamento ontologico. (...)


(...) Lukács crede davvero in questo avvento dell'uomo autentico, che un autore come Ernst Bloch ha tradotto nella visione mistica del comunismo come paradiso in terra? (26) Mi sia consentito esprimere più di un dubbio (...).Se così fosse, saremmo di fronte a una profezia di “fine della storia” che appare in stridente contraddizione con la visione lukacsiana del processo storico. Personalmente, ritengo che Lukács considerasse l'utopia marxiana, più che come una possibilità reale, concretamente attuabile, come una “ideologia” nel senso positivo chiarito poco fa, vale a dire come una potenza materiale in grado di trasformare la realtà. Il fatto che una utopia abbia scarse o nulle probabilità di concretizzarsi, scrive per esempio,  “non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato (…) l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità(27). (...)


Note 

(1) Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1970. 

(2) Ivi, p. XXVI.

(3) Storia e coscienza di classe, cit., pp. 36, 37.

(4) Tertulian (vedi la sua Introduzione a questo volume) mette in relazione questa definizione con l'esigenza di superare sia il determinismo che assolutizza il ruolo del fattore economico a scapito degli altri complessi della vita sociale, sia un concetto di necessità che riconosce in ogni formazione sociale e ogni azione storica una tappa del cammino verso la realizzazione di un fine immanente o trascendente. Secondo Tertulian, Lukács farebbe risalire questa versione distorta della necessità (comune ai teorici della  II Internazionale e a Stalin) allo stesso Engels, il quale avrebbe sottovalutato il peso della casualità e accordato credito eccessivo alla forza coercitiva della necessità.

(5) Storia e coscienza di classe, cit., p. XVIII. Poco oltre (p. XIX)  Lukács aggiunge che così “mi fu possibile arrivare solo alla formulazione di una coscienza di classe attribuita di diritto”. 

(6) Cfr. W. Abendroth, H. H. Holz, L. Kofler, Conversazioni con Lukács, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.

(7) Ontologia dell'essere sociale, Pgreco, Milano 2012, vol II, p. 265.

(8) Ivi vol. III, p. 14.

(9) Ivi, p. III, p. 58.

(10) Ivi, vol. III, p. 29. Il rischio associato al fenomeno dell'inversione gerarchico fra il fine e il mezzo del processo lavorativo è la feticizzazione della tecnica, un errore teorico che Lukács attribuisce, fra gli altri, a Bucharin, a proposito del quale scrive che si tratta di una visione in cui “i rapporti economici non vengono intesi come relazioni fera uomini, ma sono invece feticizzati, 'reificati', ad esempio identificando le forze produttive con la tecnica presa a sé, pensata come autonoma” (Vo. III, p. 341).

(11) Ivi, vol. II, pp. 290/91.

(12) Ivi, vol IV, p. 511.

(13) Ivi, vol. I, p. 325. Nelle Conversazioni del 66 (cfr. op. cit.) chiarisce assai bene la sua visione del rapporto fra determinismo socio economico e libertà soggettiva. A pag. 133 scrive: “una libertà in senso assoluto non può esistere. La libertà esiste semmai nel senso che la vita degli uomini pone delle alternative concrete, consiste nel fatto che deve e può operare una scelta fra le possibilità offerte entro un certo margine”. E poche pagine dopo: “Lo sviluppo sociale può creare le condizioni obiettive del comunismo, se poi da tali condizioni venga fuori un coronamento dell'umanità o il massino dell'anti-umanità ciò dipende da noi e non dallo sviluppo economico di per se stesso”.   

(14) Ivi, vol. III, p. 300.

(15) Ivi, vol. IV, p. 347.

(16) Ivi, vol. IV, p. 344.

(17) Ivi, vol. I, p. 308.

(18) A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1949. 

(19) Ivi, vol. IV, p. 446. 

(20) Ivi, vol. IV, pp. 452-453.

(21) Ivi, vol. I, p.245. 

(22) Ivi, vol. IV, p. 770. La tragica attualità di questa tesi è confermata dalla recente, ignobile, risoluzione del parlamento europeo che equipara comunismo e nazismo, i cui effetti devastanti si sono potuti misurare grazie al modo in cui le oligarchie neoliberali e i media occidentali hanno manipolato l'opinione pubblica in merito alla guerra russo-ucraina.

(23) Ivi, p. 782.

(24) Ivi, vol. III, p. 136. 

(25) Queste citazioni di Marx si trovano nel III° volume della Ontologia 

(26) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, 3 voll., Milano 2019. Ricordo che Lukács si è più volte espresso criticamente contro l'afflato “messianico” di Bloch (cfr. in merito C. Formenti,  Ombre rosse, op. cit.).

(27) Ontologia, cit., vol. IV, p. 522.


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