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mercoledì 6 novembre 2024

I POPOLI AFRICANI CONTRO L’IMPERIALISMO
1. SAID BOUAMAMA



Con questo testo inauguro un percorso in tre tappe sulle lotte africane contro l’imperialismo e sul loro contributo allo sviluppo del marxismo. In questo primo articolo discuto due libri di Said Bouamama (intellettuale marxista di origine magrebina nato in Francia - a Roubaix - sessantasei anni fa):  Pour un panafricanisme révolutionnaire (Syllepse, Parigi 2023) e Des classes dangereuses a l’ennemi intérieur (Syllepse, Parigi 2021). Nelle puntate successive mi occuperò, rispettivamente, di Red Africa dell’anglo-africano Kevin Ochieng Okoth (di imminente uscita presso l’editore Meltemi, con una mia Postfazione) e di un’antologia di testi del guineense  Amilcar Cabral.




I. Sul panafricanismo rivoluzionario







a) Le falsificazioni ideologiche occidentali per legittimare il colonialismo


La più diffusa mistificazione cui gli imperialisti occidentali hanno fatto ricorso per giustificare le proprie guerre coloniali di conquista, scrive Bouamama, è stata l’affermazione secondo cui l’Africa sarebbe un continente “senza storia”, che solo grazie all’integrazione negli imperi dei Paesi europei ha potuto fare il proprio ingresso nella storia “universale” (cioè europea). Questa tesi si fonda su una narrazione che presenta il continente africano come un insieme di società “primitive”, politicamente non strutturate, “senza stato”, una moltitudine di gruppi umani senza scambi reciproci, perennemente in guerra fra loro e incapaci di esprimere forme sociali più complesse della tribù e del clan famigliare (per inciso, vale la pena di sottolineare come l’immagine delle “società senza stato” evocata nelle narrazioni di alcuni antropologi occidentali, sia stata utilizzata “da sinistra” per criticare i processi di costruzione nazionale post indipendenza ed esaltare certe forme sociali premoderne in contrapposizione ai processi di modernizzazione imposti dall’esterno). 


La realtà è che, prima della colonizzazione, contrariamente alle affermazioni propagandistiche occidentali, sia nell’Africa Settentrionale che nell’Africa Subsahariana, esistevano non solo stati ma addirittura veri e propri imperi per cui la colonizzazione, scrive Bouamama, non ha voluto dire l’ingresso dell’Africa nella storia, bensì l’interruzione violenta della sua storia (esattamente come la cosiddetta “scoperta” dell’America ha voluto dire l’interruzione violenta della storia di quel continente). Un’altra invenzione pseudo-storica – coltivata soprattutto in Francia ma non solo - è consistita nel gabellare la colonizzazione dell’Africa Settentrionale come una “liberazione” del popolo berbero. Quest’ultimo, presentato come l’erede della civilizzazione romana, sarebbe stato conquistato – e poi oppresso per secoli - dagli invasori arabo-musulmani. In verità, spiega Bouamama (che pure non nega l’esistenza di conflitti interetnici), non vi è mai stata una colonizzazione arabica del Nord Africa, ove intesa come colonialismo insediativo (1), mentre l’islamizzazione della regione è stato un processo lungo, ampio e complesso .  


Infine, non potendo cancellare l’orrore della tratta transatlantica, cinicamente utilizzata, come sottolineato da Marx (2), per alimentare l’accumulazione primitiva del capitale angloamericano, si è tentato di accreditare la tesi relativa all’esistenza di una non meno massiccia e crudele tradizione schiavista pre-coloniale (con particolare insistenza sulla tratta gestita dagli arabi). Anche in questo caso Bouamama spiega che le forme di schiavitù tradizionali africane erano molto differenziate (servitù domestica, prigionieri di guerra, debitori insolventi, ecc.) e che spesso i figli degli schiavi, contrariamente a quanto avveniva per gli schiavi americani ridotti a beni mobili, non erano considerati a loro volta schiavi. Ma soprattutto, anche tenendo conto della tratta “orientale” alimentata da trafficanti arabi, i numeri, assai minori, e la durata, assai maggiore, del fenomeno non sono paragonabili a quelli della tratta transatlantica, alimentata dall’inesauribile sete di profitto di una forma sociale basata sull’accumulazione illimitata di capitale. Quest’ultima ha avuto un impatto  destrutturante nei confronti delle società africane, impoverendone il patrimonio demografico e trasformando certe élite locali in fornitrici di schiavi.


In conclusione, il “peccato originale” della cultura colonialista, nata eurocentrica e successivamente evolutasi in occidentalocentrica, consiste nelle sue pretese “universaliste”. Pretese che oggi, in era postcoloniale, vengono accampate per giustificare le guerre condotte in nome dei “diritti universali dell’uomo” contro i popoli, i Paesi e le nazioni che osano opporsi al dominio economico, politico e culturale dell’impero occidentale unificato sotto la bandiera a stelle e strisce. Questo pseudo universalismo, argomenta Bouamama, si fonda su due postulati: la tesi dell’inesistenza di “vere” civilizzazioni prima di quella occidentale e la negazione degli apporti esterni che hanno favorito lo sviluppo di quest’ultima. La prima tesi è talmente insostenibile da non meritare confutazioni: almeno fino al secolo XV, l’Europa era economicamente marginale rispetto alle ricchezze prodotte in Asia (3) e nel Vicino Oriente, per tacere della sua arretratezza culturale nei secoli del Medioevo, quanto alla presunta superiorità culturale della grecità classica nei confronti di ogni altra tradizione (4), essa si fonda sulla rimozione del  debito nei confronti della civiltà egizia e delle millenarie tradizioni culturali dell’Estremo Oriente. Del resto, queste verità erano ampiamente riconosciute dalla cultura europea prima che l’ascesa della classe borghese e le sue velleità imperiali dessero origine al moderno eurocentrismo. 



Said Bouamama




b) Il primitivismo e l’essenzialismo come malattie infantili del panafricanismo


Uno dei maggiori ostacoli che ha rallentato la formazione di una coscienza panafricanista rivoluzionaria, secondo Bouamama, è stato il mito dell’esistenza di società africane pre coloniali senza conflitti di classe e armoniosamente integrate nei rispettivi contesti ambientali, mito in ossequio del quale alcuni leader africani hanno indicato la via dell’avvenire post coloniale nel ritorno a una presunta condizione originaria. Si potrebbe dire che la prima reazione dei colonizzati all’essenzialismo della cultura dei colonizzatori sia stata quella di contrapporvi un essenzialismo dei colonizzati, ben sintetizzato dal concetto di negritudine (5). Il senegalese Leopold Senghor, profeta della negritudine e primo responsabile della feticizzazione dell’Africa pre-coloniale, descrive il nero come “ un uomo della natura” che vive in comunione con la terra e il cosmo; dotato di un carattere  “sensuale” che sperimenta la realtà attraverso gusto, udito, vista, tatto e olfatto e ne deriva un modello di razionalità che non è di tipo logico-discorsivo bensì di tipo intuitivo-partecipativo (dunque non antagonistico).  


Questo essenzialismo del colonizzato, simmetricamente opposto a quello del colonizzatore e fondato sull’esaltazione di tradizioni negate o svalorizzate, scrive Bouamama, può essere giustificato e svolgere un ruolo attivo nella fase iniziale del processo di emancipazione,  ma diventa  un ingombrante ostacolo nella fase successiva, nella misura in cui evoca un modello di “socialismo” africano ispirato a un immaginario passato senza conflitti di classe. Pur riconoscendo l’esistenza di strutture di tipo comunitario e di una tradizione di proprietà collettiva della terra in alcune aree del continente, Bouamama ricorda che tutto ciò non implicava l’esistenza di società egualitarie, tanto è vero che le potenze coloniali hanno potuto sfruttare le gerarchie sociali preesistenti al loro insediamento e metterle al servizio del proprio dominio. 


Leopold Senghor 



Questa abilità nel manipolare i conflitti e le contraddizioni che attraversano il mondo dei colonizzati, si prolunga nel tempo, anche dopo che questi hanno raggiunto l’indipendenza, e una delle sue strategie più efficaci consiste appunto nel rilanciare gli argomenti essenzialisti e localisti di certi intellettuali “afrocentrici”. In questo modo vengono riproposti i miti che definiscono l’islam e il cristianesimo come religioni “importate”, imposte con la forza a popolazioni originariamente animiste. Così il Sahara viene descritto come una frontiera invalicabile che separa da sempre Africa Bianca da Africa Nera, ignorando la realtà storica (cioè il fatto che il Sahara è da secoli attraversato da una fitta rete di scambi economici, culturali e religiosi). Così si tenta di alimentare la contrapposizione fra negritudine, arabitudine e berberitudine.  


Il panafricanismo è nato per contrastare questa strategia imperialista di divisione che mira a prolungare il dominio sui popoli africani dopo la fine dell’era coloniale. Le sue radici (come vedremo meglio nelle prossime tappe di questo percorso dedicato all’Africa) affondano nell’esperienza di sradicamento vissuta dai milioni di neri strappati ai rispettivi gruppi di appartenenza dalla tratta transatlantica: la comune sorte degli schiavi deportati in America genera il sentimento di una “comunità di destino”. Si tratta dunque, in questa prima fase, di un ideale “pan negrista”, associato cioè al colore della pelle, ma a mano a mano che si sviluppano le lotte di liberazione nazionale esso si evolve in un panafricanismo di respiro continentale per cui, a coltivare la visione di uno stato africano unico e indivisibile, non sono solo leader neri come Nkrumah e Nyerere ma anche leader nordafricani come Nasser, Ben Bella e, più tardi, Gheddafi, superando i progetti di aggregazione federale di tipo “regionalista”.


Panafricanismo e socialismo tendono a fondersi, nella misura in cui la realtà post coloniale dissipa le illusioni del ritorno a un passato ideale, mentre evidenzia i conflitti di classe vecchi e nuovi che scuotono le nazioni nate dalla dissoluzione degli imperi coloniali. La reazione imperialista, spalleggiata dalle nuove borghesie nazionali che costruiscono il loro potere all’ombra del neocolonialismo, è durissima tanto sul piano ideologico quanto su quello politico-militare. Sul primo sono proprio gli intellettuali afrocentrici essenzialisti ad accreditare la tesi del presunto carattere “eurocentrico” del marxismo, che sarebbe dunque inutilizzabile o addirittura controproducente nello specifico contesto sociale africano. Sia Bouamama che gli autori che discuterò nelle prossime due puntate non negano l’esistenza di una interpretazione eurocentrica del marxismo, che in Occidente è addirittura egemone, come sostenuto, fra gli altri, da chi scrive (6), ma rilanciano l’esigenza di una elaborazione teorica che attribuisca un significato più ampio al concetto di lotta di classe (7). 



Amilcar Cabral




Sul piano politico militare la reazione si sviluppa attraverso una serie di assassinii mirati dei leader rivoluzionari (da Lumumba a Cabral), di appoggio diretto e indiretto ai movimenti secessionisti che sfruttano conflitti etnici, di classe, religiosi, ecc. (il Sahel contro Algeria e Mali, il Katanga contro il Congo, il Biafra contro la Nigeria, ecc.), di sabotaggio e ingerenza economici (attraverso istituzioni nominalmente internazionali ma in realtà dominate dalle potenze occidentali, come il FMI e la Banca Mondiale) che mirano a bloccare ogni possibilità di sviluppo autonomo delle nazioni post coloniali costringendole ad adottare politiche economiche neoliberiste. Strategie facilitate dal crollo dell’Urss. Finché l’ascesa dei Brics e le aspirazioni alla nascita di un mondo multipolare ha aperto le prospettive di una nuova epoca di panafricanismo che potrà affermarsi solo basandosi su rigorosi presupposti materialisti.  





c) Per un’analisi materialista delle contraddizioni del processo di emancipazione. Prospettive di un nuovo panafricanismo rivoluzionario


Esaurita la fase storica in cui si è potuto pensare a un panafricanismo basato su una immaginaria comunità di cultura, che implicava la rimozione delle disomogeneità fra le diverse realtà sociali del continente e coltivava l’illusione del ritorno a un presunto comunitarismo pre-coloniale, si ripropone oggi l’urgenza e la necessità del panafricanismo politico come comune progetto di fuoruscita dalla dipendenza neocoloniale. Le élite borghesi emerse dal processo di liberazione nazionale si sono infatti rivelate incapaci di promuovere un vero sviluppo, basato sull’aumento della produzione, sulla creazione di infrastrutture moderne, sull’innovazione tecnologica e sulla crescita dell’occupazione. Il fatto che oggi esista una (ristretta) classe di super ricchi africani non è un sintomo di sviluppo autonomo bensì del ruolo di intermediazione che questo strato sociale svolge nei confronti del grande capitale straniero. Rilanciare il progetto di un panafricanismo politico rivoluzionario, scrive Bouamama, significa contrastare i discorsi panafricanisti in chiave neoliberale che stanno proliferando in sintonia con l’entrata in vigore (2021) dello ZLECAF (Zona di libero scambio africana). 


Il soggetto politico che può svolgere il ruolo di lottare contro il progetto di integrazione del continente africano nel processo di mondializzazione liberista, non sono le borghesie nazionali, che di tale processo sono complici, bensì le larghe masse popolari (torneremo sul tema  discutendo il pensiero di Cabral): oggi come ieri sono solo loro, assieme  a certi settori di piccola borghesia, a incarnare interessi economici e sociali di carattere antimperialista e anticapitalista.


La trasformazione della lotta antimperialista in lotta per il socialismo, argomenta Bouamama, implica la fuoruscita dal panafricanismo “culturalista” e la consapevolezza che non si dà liberazione culturale senza liberazione economica e politica. Per quanto riguarda il primo aspetto, Bouamama rilancia la tesi di Nkrumah, a sua volta debitore di Samir Amin (8), secondo cui nessuna indipendenza economica sarà possibile senza attuare una strategia di sganciamento (delinking) nei confronti dell’economia dominata dal capitalismo occidentale. Occorre garantire la possibilità di un aumento del prezzo delle materie prime (ponendo fine allo scambio ineguale fra materie prime a basso prezzo delle periferie e prodotti industriali a prezzo elevato delle metropoli), sviluppare una industrializzazione autonoma (ponendo fine alla specializzazione i produttiva in materie prime – e forza lavoro! - a basso prezzo). Si tratta cioè di dare vita a economie autocentrate, il che non significa autarchia bensì sviluppare relazioni di scambio finalizzate all’accumulazione interna (Notiamo che a questi principi si è ispirata la politica economica cinese dopo le riforme degli anni Settanta, con i formidabili risultati che tutti conosciamo). Delinking significa, fra le altre cose, riprogettare la rete dei trasporti africani per renderla funzionale agli interscambi interni, eliminare le barriere doganali fra stati (e rafforzare quelle nei confronti dei prodotti metropolitani), e lavorare in prospettiva della costruzione di una comunità monetaria africana (il progetto di allargamento dei Brics in funzione di sganciamento dal signoraggio del dollaro – è il caso di aggiungere - può essere in tal senso un fattore strategico). 


Kwame Nkrumah 



Tutto ciò non può essere realizzato in assenza di un ruolo centrale dello stato, per cui Bouamama contrappone alle tesi antistataliste di destra e sinistra lo slogan: “l’Africa non soffre per troppo stato  ma di troppo poco stato”. Quest’affermazione chiama in causa le critiche degli “antinazionalisti” che (come vedremo nelle prossime puntate di questo trittico africano) addebitano le contraddizioni del processo di liberazione al fatto di avere ingabbiato le energie della lotta per l’indipendenza nel modello dello stato-nazione. Gli antinazionalisti, argomenta Bouamama, dimenticano una serie di aspetti fondamentali del processo di liberazione dal dominio coloniale e neocoloniale: 


Uno. Anche i regimi più reazionari e infeudati all’imperialismo sono stati costretti a soddisfare almeno in parte le esigenze popolari, per cui l’affermazione secondo cui in certi Paesi africani la gente starebbe oggi peggio di quando erano colonie è una boutade priva di fondamento che fa oggettivamente il gioco degli interessi imperialisti.


Due. La mancata costruzione di un senso di solidarietà e appartenenza nazionali lascia campo libero ad altre forme di solidarietà comunitaria che, se in certe condizioni possono articolarsi fra loro nella stessa opposizione al colonizzatore,  possono anche essere sfruttate come strumenti di divisione del fronte antimperialista.  


Tre. Per quanto giustificata, la critica della palese artificialità delle frontiere che separano i Paesi africani (tracciate con la riga e il compasso dalle potenze coloniali che si sono spartite l’Africa fra fine Ottocento e primo Novecento) non tiene conto della realtà storica concreta in cui si è realizzato il processo di de-colonizzazione. Il discorso sulla intangibilità delle frontiere è stato una scelta obbligata per i leader della lotta indipendentista, nella misura in cui la loro azione politica si svolgeva nel contesto di un mondo caratterizzato dalla guerra fredda fra grandi potenze e dai tentativi di strumentalizzare i conflitti interni ed esterni dei Paesi di recente indipendenza per dividerli e sottometterli ai progetti neocoloniali. 


Quattro. L’antinazionalismo di certe sinistre occidentali è ispirato alla visione eurocentrica del nazionalismo (e alla storia dei conflitti fra stati occidentali) per cui non coglie il significato emancipatorio che il nazionalismo assume per i Paesi dominati.  


Cinque. Non vi è contraddizione fra emancipazione nazionale a panafricanismo: la prima è il punto di partenza imposto dalle condizioni storiche concrete della dominazione coloniale, il secondo è l’obiettivo finale imposto dalla necessità di accumulare forze sufficienti per spezzare la dipendenza del continente dal dominio neocoloniale. 


Quanto appena esposto non vuol dire che Bouamama ignori i conflitti e le contraddizioni che hanno accompagnato i processi di costruzione nazionale post indipendenza. Posto che l’artificialità di certe  entità nazionali generate dalla de-colonizzazione non rappresenta di per sé un ostacolo insuperabile per il processo di costruzione politica di una nazione, è evidente che ciò può essere fatto in modi diversi. E in tal senso va preso atto che sono stati commessi errori. Spesso, ammette Bouamama, si è concepito il nuovo stato-nazione sul modello di quelli dell’Europa capitalista: unicità di lingua, centralizzazione amministrativa, rimozione delle differenze etniche e culturali. Inoltre le nuove classi dominanti africane hanno altrettanto spesso strumentalizzato i fattori etnici e tribali come strumenti di ripartizione ineguale della ricchezza e di gestione di favori clientelari. Contro questi errori occorre che si formino élite dominanti capaci di rispettare e proteggere gli interessi delle minoranze e di non confondere l’esigenza di promuovere lo sviluppo di una cultura e di un linguaggio comuni con l'imposizione di una cultura e di lingua uniche. L’obiettivo, conclude Bouamama, dovrebbe essere imboccare la via dell'aggregazione federale sia a livello nazionale che continentale, per arrivare alla costruzione di uno stato plurinazionale unitario sul modello di quello prospettato dalle Costituzioni introdotte dalle rivoluzioni bolivariane in America Latina (9).




II. Immigrazione, razzismo e costruzione del nemico interno


Il secondo libro di Bouamama di cui mi occupo in questo articolo sposta l’attenzione dalla realtà del continente africano a quella di una nazione europea, la Francia, che ha svolto un ruolo importante nel  processo di colonizzazione e che resta tuttora una delle potenze occidentali più impegnate nel conservare il dominio neocoloniale sull’Africa. Se il libro precedente analizza la lotta dei popoli africani per liberarsi dal dominio coloniale, e per contrastare i tentativi occidentali di continuare – anche dopo la de-colonizzazione - ad appropriarsi delle loro risorse naturali e umane per alimentare la propria inesauribile sete di profitto, questo secondo lavoro ha come protagonisti i milioni di immigrati che hanno raggiunto la Francia per garantirsi la sopravvivenza esaudendo la domanda di lavoro a buon mercato di un paese che soffre di un cronico deficit demografico. Un paese nel quale non solo i sans papier, ma anche le seconde e terze generazioni dei discendenti delle prime ondate migratorie, pur nominalmente “promossi” a cittadini francesi, continuano a vivere una realtà di supersfruttamento economico ed emarginazione sociale.


a) Capitalismo e immigrazione. Le cause strutturali del fenomeno 


La narrazione liberista presenta il fenomeno migratorio come il prodotto di “leggi” economiche oggettive: è il gioco della domanda e dell’offerta (nel caso specifico di quella peculiare “merce” – che in realtà non è tale, come ci ha spiegato Marx – che è la forza- lavoro) che, sul lungo periodo e sia pure al prezzo di inevitabili costi umani, genera una situazione ottimale per ogni individuo e ogni nazione. Bouamama smonta questa narrazione rilanciando un punto di vista marxista che analizza il fenomeno adottando una prospettiva storica di lungo periodo. Il modo di produzione capitalistico è nato e ha potuto svilupparsi solo distruggendo le altre forme produttive e riproduttive, in particolare le economie contadine a carattere comunitario e famigliare basate su un’economia di sussistenza. Ciò è stato magistralmente descritto dai padri fondatori del marxismo, Marx ed Engels, così come dai grandi critici dell’economia politica borghese, come Polanyi, Samir Amin, Arrighi e altri, fra cui quel David Harvey che ha coniato la categoria di “accumulazione per espropriazione” per descrivere questo evento originario, ma costantemente ri-attualizzato, del capitalismo (10).


La forza lavoro “liberata” dalla distruzione dei modi di produzione tradizionali alimenta i   flussi migratori interni ai singoli paesi capitalisti: milioni di individui sono costretti ad abbandonare le periferie e affluire nei centri industriali in cerca di mezzi di sussistenza. Ma il processo supera presto i limiti nazionali, nella misura in cui, argomenta Bouamama, non è mai esistito un capitalismo non mondializzato, bensì un processo progressivo di mondializzazione: il capitalismo nasce imperialista, spinto dalla necessità di allargare costantemente le basi della propria accumulazione, esso è cioè indotto ad esportare il processo di “accumulazione per espropriazione” colonizzando i paesi in cui vigono ancora rapporti sociali di tipo tradizionale. In questo modo il capitale non omogeneizza il mondo, come pretende la narrazione liberista, ma lo polarizza fra aree sviluppate e sottosviluppate, instaurando una brutale divisione ineguale del lavoro. In poche parole, la mondializzazione imperialista garantisce al capitale l’accesso a larghe masse di forza lavoro supersfruttabile, prima esportando il proprio modo di produzione, poi importando la forza lavoro “liberata” dagli effetti di tale esportazione. Così il processo iniziato su scala nazionale si ripete su scala mondiale. 


David Harvey



Descritto il meccanismo nella sua forma generale-astratta, storica, Bouamama passa ad analizzare alcuni suoi “corollari” e ad aggiornare le forme concrete che esso tende ad assumere nella realtà attuale (con particolare riferimento al contesto francese). In primo luogo, i flussi migratori sono indispensabili per fronteggiare il deficit demografico europeo e bilanciare gli effetti dell’invecchiamento della popolazione europea (un problema particolarmente grave in Francia, con il più basso tasso di incremento demografico a livello continentale). Inoltre l'immigrazione è uno dei principali – se non il principale - strumento che consente di mantenere il controllo sulle masse lavoratrici “segmentando” il mercato del lavoro, suddividendolo cioè per settori economici, tipi di impiego, ecc. Infine, la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori generata dalla stratificazione appena descritta consente di realizzare l’obiettivo di disporre di una forza lavoro ad elevata mobilità, facilmente trasferibile da un settore, un impiego e un luogo all’altro.


L’accelerazione del processo di mondializzazione degli ultimi decenni ha introdotto una serie di fattori inediti che hanno aumentato la complessità dei fenomeni fin qui descritti, a partire dal massiccio processo di decentramento produttivo verso i paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, che ha fatto sì che l’83% della forza lavoro manifatturiera viva oggi nel Sud del mondo, il che, invece di generare una redistribuzione della ricchezza a favore di quest’ultimo – come teorizzato dagli apologeti della globalizzazione -, ha generato un aumento della povertà in entrambi i contesti. Inoltre il fatto che gli “aiuti” del mondo occidentale ai paesi del Sud siano stati associati alle “riforme strutturali” imposte dal FMI e dalla Banca mondiale (privatizzazioni dei servizi pubblici, tagli alla spesa sociale, ecc.), ha fatto sì che la forza lavoro periferica “liberata” e resa disponibile alla migrazione verso il centro, non  riguardi più solo i lavoratori dell’economia tradizionale ma anche strati delle classi medie urbanizzate, che non hanno più trovato impiego nel settore pubblico falcidiato dalle riforme. Non più solo contadini sradicati ma anche medici, insegnanti, ingegneri, colletti bianchi, ecc. In questo modo competenze formatesi a spese delle periferie sono andate ad alimentare la forza lavoro a basso costo per i servizi pubblici dei paesi dominanti (Bouamama cita, in particolare, il massiccio impiego di personale medico di origine extracomunitaria nel servizio sanitario francese. E questa nuova migrazione, per ragioni che esamineremo nei prossimi paragrafi, non è solo destinata al supersfruttamento ma è condannata a restarvi stabilmente. 


b) Prima dell’ondata di origine africana. Le migrazioni interne e infraeuropee


Bouamama dedica un’ampia sezione del volume che stiamo discutendo alla storia delle migrazioni interne in Francia. Anche qui parte da una premessa teorica di tipo generale, che consiste nell’affermazione secondo cui il processo di costruzione nazionale, lo sviluppo di una classe operaia  moderna e i flussi migratori costituiscono un insieme indissociabile. Ciò deriva, oltre che dalla relazione di interdipendenza fra distruzione delle forme sociali periferiche e accumulazione primitiva nei centri descritto nel precedente paragrafo, dal fatto che nell’Esagono la natalità è sempre stata più bassa che nel resto d’Europa, il che ha reso questa regione una calamita che, a mano a mano che cresceva la domanda di forza lavoro, ha attratto masse di migranti prima dalle periferie interne, poi dai paesi limitrofi, infine dall'Africa.  


Ragionando sulla migrazione interna del periodo successivo alla Rivoluzione del 1789, Bouamama avanza la tesi secondo cui, nel processo di costruzione nazionale, si è costantemente fatta confusione fra unità politica e unicità culturale. Tipica, in questo senso, la promozione a lingua nazionale del francese “parigino” che viene imposto distruggendo le lingue delle “nazioni primarie”, come quella bretone. I Bretoni, fra gli altri, sono stati bersaglio di irrisione e disprezzo per il loro linguaggio “barbaro” e per la loro “inciviltà”, e fatti oggetto di un processo di “etnicizzazione” che ha consentito di stratificare la classe operaia francese in formazione, assegnando a queste etnie “arretrate” le mansioni produttive più faticose, puramente esecutive e “sporche” e confinandole nei settori economici a più elevato tasso di sfruttamento. 




Nella seconda metà dell’Ottocento le migrazioni interne non bastano più a soddisfare l’insaziabile sete di  forza lavoro a basso prezzo dell’industria francese, per cui si spalancano le porte ai flussi migratori provenienti dai paesi europei: italiani, spagnoli, polacchi, ecc. Oggi le élite borghesi alimentano il mito della presunta ”integrazione armoniosa” di questi migranti europei (e dei loro discendenti) che viene contrapposta alla mancata o incompleta integrazione delle successive migrazioni provenienti dai paesi extracomunitari (soprattutto africani). Un mito che Bouamama smonta ricordando l’emarginazione, i tassi di sfruttamento e le persecuzioni razziste di cui furono oggetto soprattutto i lavoratori italiani che già allora furono rappresentati, come avviene oggi con gli immigrati extracomunitari, come una minaccia di “sostituzione” della popolazione autoctona. Oggi, dopo che i flussi migratori dall’Italia si sono fermati da tempo, e le generazioni successive appaiono pienamente assimilate dalla cultura francese, si alimenta il mito di un’integrazione riuscita in ragione di una sostanziale prossimità culturale, laddove la distanza culturale degli immigrati postcoloniali giustificherebbe il fatto che il trattamento discriminatorio nei loro confronti si estende anche alle generazioni successive alla prima, benché queste ultime siano ormai costituite in maggioranza da cittadini francesi. Ma questa teoria della distanza culturale, come stiamo per vedere, è la forma specifica che il razzismo ha assunto nell’era della globalizzazione postcoloniale. 



c) Dal razzismo biologico al razzismo culturale


Il razzismo, argomenta Bouamama, è una modalità essenziale di classificazione sociale nella civiltà capitalista occidentale. Ma dopo gli orrori perpetrati dai nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, il razzismo biologico, che nell’Ottocento e nella prima parte del Novecento era ancora ampiamente utilizzato per legittimare il colonialismo imperialista, è divenuto impresentabile. La condanna morale del razzismo da parte della cultura liberal-democratica punta il dito quasi esclusivamente contro i pregiudizi individuali nei confronti dell’altro, per cui affida la soluzione del problema all’educazione, mentre ignora gli interessi materiali (economici e politici) che producono e riproducono il razzismo. Così, sparito il razzismo che riguarda l’eredità biologica, se ne inventa un altro, ovvero quel “razzismo senza razza” che si fonda sulla tesi della irriducibilità delle differenze culturali (per la precisione delle differenze fra culture del centro e culture delle periferie, cioè fra Occidente e resto del mondo). 



Di fronte al fatto che gli immigrati post coloniali di seconda e terza generazione, benché francesi a tutti gli effetti, continuano a essere percepiti e trattati come stranieri;  di fronte al fatto che il tasso di disoccupazione dei figli dei migranti è il doppio di quello dei loro coetanei bianchi; di fronte al persistere delle discriminazioni in materia di alloggi, per cui i migranti sono “confinati” in luoghi riservati agli strati inferiori delle classi subalterne (questa segregazione è così intensa che la maggioranza assoluta dei nuovi migranti vive in una trentina di quartieri dell’Ile de France), tracciando le frontiere di quella che Bouamama definisce “la linea del colore”; di fronte al fatto che anche i figli dei migranti che riescono ad accedere ai livelli di educazione più elevati faticano a ottenere lavori adeguati al grado di istruzione raggiunto. Di fronte a tutto ciò, viene costruita la narrazione dell’incompatibilità di questi soggetti con l’ambiente culturale di adozione. Costoro, si argomenta, non sono discriminati, bensì, nella misura in cui scelgono di aggregarsi in comunità culturalmente omogenee, danno vita a un “separatismo delle minoranze” che rifiutano di integrarsi nella nazione che li ospita. Questo “comunitarismo” che altro non è, scrive Bouamama, che il prodotto sociale delle discriminazioni, viene così trasformato in scelta consapevole e in caratteristica culturale.


La spiegazione “culturalista” tende proiettare un’immagine omogenea di gruppi sociali anche profondamente diversi fra loro, a offrirne una rappresentazione antistorica che rimuove completamente le interazioni ambientali a cui sono esposti. Le popolazioni delle banlieues divengono oggetto di una rappresentazione “neo-orientalista” (11) che si riferisce in particolare alla religione islamica. E il modo in cui viene affrontata la questione islamica, è un sintomo della tendenza – tipica dell’attuale fase avanzata della mondializzazione – ad attribuire al razzismo culturalista una connotazione “civilazionista”, dove il riferimento è, ovviamente, alla tesi dello “scontro di civiltà” formulata da Samuel Huntington (12). 


Il discorso di Huntington è fin troppo noto perché sia necessario spendervi più di poche battute riassuntive. Il politologo americano è il guru di una nuova guerra fredda che, diversamente da quella economica, politica e ideologica che ha opposto Stati Uniti e Unione Sovietica fino alla caduta del socialismo in Russia, assumerebbe oggi la forma di uno scontro fra valori di civiltà. Da un lato la civiltà liberal democratica  dell’Occidente“cristiano” (l’aggettivo merita di essere messo fra virgolette in quanto i valori evocati sono soprattutto quelli delle sette protestanti angloamericane), dall’altro le civiltà confuciana islamica, cristiano ortodossa, cattolico “ispanica”,  tanto diverse fra loro quanto unificate dal rifiuto dei valori occidentali. Huntington ignora la complessità di queste tradizioni quanto le loro differenze omogeneizzandole e presentandole come altrettanti blocchi monolitici. Ecco perché le sue tesi hanno svolto un ruolo determinante per trasformare l’immagine dei migranti post coloniali in Francia – in maggioranza musulmani – da classi pericolose in veri e propri nemici interni. 





Questa operazione è ovviamente in conflitto con gli interessi delle élite borghesi francesi che non possono fare a meno della forza lavoro degli immigrati. Tuttavia, a mano a mano che le seconde e terze generazioni, esasperate dal perpetuarsi della propria condizione di emarginati anche dopo la “promozione” a cittadini della Repubblica, hanno iniziato a radicalizzare le loro rivendicazioni economiche, sociali e politiche, e le banlieues sono diventate terreno di scontro violento al pari dei ghetti afroamericani negli Stati Uniti, anche il discorso del potere si è radicalizzato, facendo propri i discorsi della destra fascista e razzista. 


In questo modo la logica culturalista e “integrazionista”, che ha sempre guidato le politiche governative nei confronti dei migranti, è divenuta sempre più simile a quella applicata in Algeria e nella altre colonie prima della loro emancipazione: l’integrazione ha assunto il carattere di una versione eufemistica dell'assimilazione dei popoli colonizzati, e lo scontro sociale trasfigurato in scontro di civiltà ha assunto forme sempre più simili a quelle delle guerre coloniali. Si è iniziato a parlare di “soglia di tolleranza”: così come il corpo umano può tollerare solo una certa quantità di determinate sostanze, il corpo sociale sarebbe in grado di tollerare solo una certa quantità di migranti (si sottintende di migranti di religione musulmana, nel senso che il discorso non viene applicato ai migranti di origine est europea). Si ricorre al concetto di “crisi” migratoria, per evocare l’immagine di uno squilibrio demografico brusco e pericoloso: torna il fantasma, già evocato nell’Ottocento a proposito dell’immigrazione italiana, della “sostituzione” della popolazione autoctona o almeno della “corruzione” dei suoi valori civili e culturali.





L’islamofobia, alimentata dai media e dalle campagne elettorali delle destre, partorisce il fantasma di un presunto islamo-gauchismo (alimentato dal fatto che le sinistre difendono le ragioni sociali e politiche delle minoranze migranti). Gli islamo-gauchisti sono presentati come una sorta di quinta colonna di un nemico interno ed esterno al tempo stesso, riproponendo paradossalmente lo stereotipo del “bolscevismo giudaico” agitato fra le due Guerre mondiali (paradossalmente perché oggi Israele è parte integrante del blocco bianco-occidentale e la propaganda filo-palestinese è considerata espressione tipica della cultura islamo-gauchista). Infine i raggruppamenti “comunitari” dei migranti nelle banlieues in cui vengono confinati (vedi sopra) sono rappresentanti come aree sottratte alla sovranità repubblicana, nei confronti delle quali è necessario procedere a una “riconquista territoriale”. 


È soprattutto quest’ultima narrazione a legittimare una progressiva militarizzazione delle forze di polizia e delle armi a loro disposizione, un fenomeno che ha attribuito alle operazioni repressive il carattere di una vera propria guerra interna sul modello di quella combattuta in Algeria. Una evoluzione favorita dalla crescente penetrazione di quadri di estrema destra nelle forze di polizia, sul modello di quanto era accaduto nel dopoguerra, con la permanenza al loro interno di quadri del regime fascista e con l’arruolamento di ex coloni e combattenti della guerra coloniale. In conclusione: il razzismo “culturalista”, nato per evitare il riproporsi degli squalificati pregiudizi del razzismo biologico, ha partorito il mostro di una guerra coloniale combattuta sul territorio della metropoli. 


Avvertenza finale: questo articolo non prevede una conclusione, in quanto mi riservo di scriverne una relativa a tutte e tre le puntate del trittico africano inaugurato dal testo che avete appena finito di leggere. 



Note

(1) Per colonialismo insediativo si intende la conquista di un territorio da parte di coloni che si sostituiscono (annientandole) alle popolazioni autoctone. Tali sono stati i processi di colonizzazione dell’America del Nord e dell’Australia (vedi in proposito L. Pegoraro, I dannati della terra. I genocidi dei popoli indigeni in America e in Australia, Meltemi, Milano 2019). Tale avrebbe dovuto essere, nell’intento di Hitler, la colonizzazione della Russia e tale minaccia di diventare, nei progetti della destra sionista, la colonizzazione della Palestina.

(2)  Cfr. K. Marx, Il Capitale, vol. I. Cap. XXIV (“La cosiddetta accumulazione originaria”) pp. 896 e segg. , UTET, Torino 1974.

(3) Sulla superiorità dell’economia cinese rispetto a quella europea perlomeno fino ai secoli XVII e XVIII vedi l’analisi di Smith citata da Arrighi in Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.

(4) Ne Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi, Milano 2019, pp. 187 e segg.) ho polemizzato con le tesi dei filosofi occidentali che attribuiscono all’antica Grecia il merito di culla esclusiva del pensiero razionale.

(5) Il concetto di negritudine ha assunto sfumature ideologico-politiche diverse a seconda degli autori che lo hanno adottato. La versione più ricca di contenuti antimperialisti è senza dubbio quella di Aimé Césaire (Cfr. Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2020). Va detto tuttavia che molti intellettuali marxisti impegnati nella lotta contro il colonialismo, fra i quali Frantz Fanon e Amilcar Cabral, hanno attraversato una fase in cui hanno subito il fascino del concetto per poi abbandonarlo.

(6) Vedi, in particolare, C. Formenti, Guerra e rivoluzione, vol. I, cap. 1 (“La cassetta degli attrezzi”), Meltemi, Milano 2023.

(7) Oltre al contributo di Cabral, del quale discuteremo in una puntata successiva di questo trittico africano, un apporto significativo all’ampliamento del concetto di classe antagonista in contesti coloniali e post coloniali è arrivato da alcuni marxisti latinoamericani come Mariategui (Sette saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino 1972) e Linera (Forma valor y forma comunidad, Quito 2015).

8) Cfr. Samir Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986.

(9) Bouamama cita in particolare la Costituzione boliviana quale esempio di modello statuale multiculturale e multietnico.

(10) Cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano 2018.
(
11) Sul concetto di orientalismo cfr. Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2013.

(12) Cfr S. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2000. 
 
 


    



sabato 12 ottobre 2024

PERCHE' L'OCCIDENTE PERDE

IL REALISMO GEOPOLITICO DI EMMANUEL TODD






A mano a mano che le guerre provocate dal blocco occidentale per puntellare la sua crescente incapacità egemonica si rivelano un rimedio peggiore del male, aumenta il numero degli intellettuali liberal democratici che criticano “dall’interno” le scelte delle élite euro-americane (più americane che euro, vista la totale sottomissione dell’Europa agli Stati Uniti, anche a costo di risultare la prima vittima del dominus d’oltreoceano). In generale si tratta di eredi dell’approccio “realistico” ai conflitti geopolitici che ha un illustre precursore nell’autore della teoria del “contenimento”: quel George Kennan che invitava gli Stati Uniti e i loro alleati ad affrontare la minaccia sovietica attraverso il confronto diplomatico, evitando lo scontro militare aperto. Tale strategia comportava, in primo luogo, un’attenta e approfondita analisi dell’avversario (interessi economici e geopolitici, cultura e valori ideali, potenzialità industriale, scientifica e tecnologica, potenza militare, ecc.) per poterne prevedere mosse e intenzioni. A questa tradizione si iscrive lo storico, sociologo e antropologo francese Emmanuel  Todd, autore di un libro, La sconfitta del’Occidente, appena uscito in edizione italiana per i tipi di Fazi, un testo che sta ottenendo una sorprendente attenzione dai media italiani, di solito solleciti nel silenziare qualsiasi critica, ancorché moderata, nei confronti della politica imperiale a stelle e strisce. 


E’ probabile che ciò che ha consentito al libro di Todd di infrangere la “spirale del silenzio” (1), sia, oltre all'andamento della guerra, che rende sempre più insostenibile lo tsunami di balle propagandistiche che ha invaso giornali, televisioni e social negli ultimi due anni, l’impeccabile curriculum occidentalista dell’autore, scevro da sospetti di inclinazioni “putiniane” o, Dio non voglia, socialcomuniste, così come da simpatie “terzomondiste” nei confronti delle nazioni e dei popoli che manifestano la volontà di sganciarsi da un’area imperiale ormai ridotta a Stati Uniti, Ue, Giappone e “anglosfera” (Inghilterra, Canada, Australia e Nuova Zelanda). 


Emmanuel Todd



Le critiche di Todd – come vedremo assai dure, per non dire feroci – non sono dunque quelle di una serpe in seno sospettabile di svolgere il ruolo di quinta colonna del nemico, bensì quelle di un amico che tenta di mettere in guardia l’Occidente – sebbene ammetta di nutrire scarsa fiducia in merito all'efficacia dei propri ammonimenti – dal proseguire su una strada che lo sta portando verso il suicidio, quasi una riedizione della follia che indusse Hitler a invadere l’Unione Sovietica (il paragone non è di Todd, ma io mi permetto di tradurre così le sue ripetute citazioni del detto “Dio acceca chi vuole perdere”). Ma vediamo perché il nostro considera suicida la decisione di provocare una guerra contro la Russia, mandando al massacro il popolo ucraino. 


Le argomentazioni del libro sono assai articolate e non prive di ripetizioni per cui eviterò di seguirne l’ordine espositivo, raggruppandole piuttosto in due aree tematiche: da un lato, quelle che Todd indica come le cause materiali che a suo avviso concorrono a rendere inevitabile la sconfitta dell’Occidente, dall’altro le cause ideali. Volendo usare una distinzione cara ai marxisti ortodossi, potremmo definirli, rispettivamente, i fattori strutturali e sovrastrutturali e, come vedremo, Todd tende a privilegiare i secondi.  


Parto dall’elenco dei sintomi che l'autore considera altrettanti indicatori della profonda crisi socioeconomica che stanno attraversando gli Stati Uniti: aspettativa di vita più bassa e tasso di mortalità infantile più elevato rispetto a quelli degli altri Paesi avanzati; un alta percentuale di suicidi e omicidi di massa, nonché di cittadini affetti da obesità e patologie relative; abbassamento del livello educativo; infrastrutture obsolete; una popolazione carceraria superiore a quella di Paesi “totalitari” come Cina e Russia; calo della produzione industriale mascherato da un PIL “gonfiato” dalle voci relative ai servizi alla persona, a conferma del fatto che il Paese produce meno di quanto consuma e vive di flussi di importazione finanziati dall’emissione di dollari, il che è possibile grazie al “signoraggio” del dollaro in quanto moneta che funge da riserva mondiale. 


In poche – durissime – parole, Todd descrive l’America come un Paese di “parassiti” che trovano più facile produrre valuta piuttosto che beni materiali e possono farlo a spese del resto del mondo. Infine punta il dito contro l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze che ha scavato un abisso di odio e disprezzo reciproco fra una élite composta dal 30-40% di benestanti super istruiti (fra i quali un’infima minoranza di super ricchi) e la massa del popolo. Quest’ultimo fenomeno ha trasformato di fatto il sistema democratico in una oligarchia di censo, spazzando via i miti della meritocrazia, della mobilità sociale e del “diritto alla felicità”. Anche Todd associa queste défaillance ai processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia innescati dalla rivoluzione neoliberista, tuttavia ritiene che essi siano soprattutto gli effetti di cause più profonde, di tipo culturale e antropologico. Prima di entrare nel merito di queste ultime, tuttavia, cito quella che Todd considera una delle maggiori, se non la maggiore, sorpresa emersa dagli sviluppi della guerra, vale a dire l’incredibile resilienza dimostrata da una Russia che avrebbe dovuto essere messa in ginocchio dalle sanzioni economiche e dagli aiuti militari occidentali all’Ucraina. 


G. Kennan



Dopo due anni di questa duplice “cura” la Russia si è rivelata in grado di compiere una serie di riconversioni economiche (alle quali, suggerisce Todd, si era evidentemente preparata da tempo) che le stanno consentendo di rendersi autonoma dal mercato occidentale, al punto che oggi può vantare un aumento del tenore di vita, bassi tassi di disoccupazione, il raggiungimento dell’autosufficienza alimentare (tanto da potersi permettere l’esportazione di prodotti agricoli). Ma soprattutto, in barba alle profezie dei media occidentali sull’arretratezza delle sue tecnologie militari e sull’incapacità del suo apparato industriale di far fronte allo sforzo bellico, riesce a fronteggiare con relativa facilità l’enorme flusso di mezzi che Usa, Nato e Ue mettono a disposizione di Kiev, pur impegnando solo una frazione del proprio potenziale di uomini e mezzi. Dulcis in fundo: il sostegno popolare al regime di Putin appare incrollabile (anche perché, suggerisce Todd, il leader russo è stato abile nell'imbrigliare il potere degli oligarchi e nel prestare attenzione agli interessi dei lavoratori).


Nasce così un paradosso: un Paese che ha 140 milioni di abitanti a fronte degli 800 e passa milioni dei Paesi occidentali, rispetto ai quali era descritto come molto più arretrato in termini di capacità tecnologica e potenza industriale, rischia seriamente di vincere la guerra. In particolare, Todd insiste sulla difficoltà dell’apparato americano di alimentare un rilancio militare-industriale all’altezza della sfida, mettendola in relazione alla smaterializzazione di un’economia che da decenni produce più denaro che macchinari e di un sistema educativo che, di conseguenza, premia i curriculum in scienze economiche rispetto a quelli in scienze scientifiche e tecnologiche (il 23% dei giovani russi studia ingegneria a fronte del 7,2% di quelli americani, per tacere del divario abissale nei confronti della Cina, avviata al sorpasso sul terreno delle tecnologie avanzate). 


Possibile che gli Stati Uniti abbiano commesso un errore così clamoroso di sottovalutazione delle potenzialità del nemico e delle proprie difficoltà interne? E possibile che l’Europa si sia lasciata coinvolgere in un conflitto che, non solo le sta costando un prezzo elevatissimo, ma è palesemente contrario ai suoi interessi geopolitici? Ha ragione Mearsheimer (2) nel descrivere un Occidente impazzito, tanto incapace di capire l’altro da sé – se non addirittura di ammetterne l’esistenza - quanto obnubilato dall’illusione di rappresentare la totalità del mondo? Todd non è di questo avviso e, per spiegare l’arcano, sposta, come anticipato sopra, il discorso sul terreno dell’analisi antropologica.


Secondo Todd, la débâcle occidentale si spiega sostanzialmente con il tramonto della fede religiosa (e di quella sua versione secolarizzata che sono le ideologie politiche). Seguendo la classica lezione di Max Weber (3), egli sostiene infatti che il primato industriale, tecnologico e commerciale dell’Occidente era fondato sull’etica protestante e sulle sue versioni secolarizzate. Il protestantesimo, assieme all’ebraismo, non hanno solo promosso l’intraprendenza industriale e commerciale, ma anche stimolato lo studio e favorito un alto livello intellettuale delle élite dominanti. Il rovescio della medaglia era (e resta) l’incapacità di comprendere e apprezzare le culture delle altre nazioni del mondo: il protestantesimo ha generato popoli, scrive Todd, che a furia di leggere troppo la Bibbia hanno finito per credersi eletti da Dio. A mano a mano che la fede si indeboliva, passando dalla vitalità originaria al conformismo nei confronti di valori secolarizzati, per implodere finalmente nell’attuale “grado zero” della religione, tale processo ha generato cinismo, amoralità e riduzione del livello intellettuale delle élite, al punto che l’impero neocons a stelle e strisce appare “privo di centro e progetto, un organismo essenzialmente militare guidato da un gruppo privo di cultura i cui unici valori sono potere e violenza”. 


Un ritratto di Max Weber



Viene spontaneo obiettare che il processo in questione dev’essere a sua volta ricondotto alle cause che lo hanno provocato, e in tal senso l’evoluzione del tardo capitalismo (neoliberismo, globalizzazione e finanziarizzazione) e il suo impatto sui rapporti sociali sono i primi indiziati. Ma Todd considera i due processi – economico-sociale e culturale - come reciprocamente autonomi e paralleli e, a tratti, rovescia il nesso causale accordando il primato al secondo.  Per esempio, sostiene che la scomparsa della morale sociale e del sentimento collettivo, associati all’estinzione della fede religiosa, sono i fattori che più di ogni altro hanno favorito l’indebolimento degli stati nazione, fino a trasformare i Paesi occidentali in un’area tanto priva di connotati riconoscibili quanto unificata dai principi e dai valori del neoliberalismo (anche se non sottolinea a sufficienza che ciò vale per le élite cosmopolite occidentali, più che per le rispettive popolazioni). 


Anche nell’indagare l’allineamento europeo, tanto più paradossale in quanto la guerra ha intensificato lo sfruttamento sistemico della periferia europea da parte del centro americano (vedi gli effetti devastanti – soprattutto per la Germania - dell’attentato al gasdotto del Mar Baltico e del blocco dell’interscambio commerciale con la Russia), Todd mischia argomenti materiali e culturali, privilegiando i secondi. Da un lato dice che l’Europa, una volta colonizzata dal meccanismo della globalizzazione finanziaria, non è più in grado di sganciarsi dalle direttive di Washington; dall’altro sostiene che il progetto europeo, nella misura in cui appare svuotato di senso sociale e storico (e anche qui la causa prima sarebbe il venir meno di fedi religiose e ideali), aveva bisogno di un nemico esterno per ricompattarsi. Poi parla del subentrare dell’asse Londra-Varsavia-Kiev a quello Berlino-Parigi alla guida di un’Europa militarizzata, e anche qui la sua attenzione si concentra sulla “russofobia” che accomuna Inghilterra e Paesi dell’Est Europa. Nel caso dell’Inghilterra, si tratterebbe di una riattualizzazione immaginaria del vecchio conflitto imperiale con la Russia, associato alla rimozione della propria insignificanza economica e militare, frutto di decenni di deindustrializzazione, deficit commerciale e privatizzazioni. Nel caso dei Paesi dell’Est Europa, Todd chiama in causa il “debito inconscio e represso” che nutrirebbe il rancore di classi medie sviluppatesi proprio grazie all’occupazione sovietica e alla formazione di élite istruite che ne è derivato. 


Per motivi di spazio, tralascio sia l’analisi che Todd dedica alla conversione bellicista dei paesi scandinavi, sia il suo tentativo di spiegare perché l’Ucraina, nella fase iniziale del conflitto, si è dimostrata più capace del previsto di opporsi alla Russia, inducendo Stati Uniti ed Europa a illudersi  in merito alla possibilità di ottenere una vittoria militare. Vengo invece alla sua valutazione dei motivi che inducono il resto del mondo a schierarsi di fatto con la Russia, consentendole di assorbire lo shock delle sanzioni. Le argomentazioni di Todd non sono sempre coerenti e lineari, tuttavia mi pare che se ne possa estrarre un nucleo essenziale articolato in tre punti. 


Uno. Russia, Cina e il gruppo dei Brics sono impegnati a costruire un’alternativa produttiva, finanziaria, commerciale e in prospettiva monetaria all’area del dollaro. A rendere attrattiva tale alternativa per molte altre nazioni dell’Est e del Sud del mondo concorrono vari fattori, ma Todd insiste in particolare sul fatto che tutti i Paesi in questione sono, a differenza di quelli del blocco occidentale, stati-nazione, il che fa sì che ragionino in termini di realismo strategico e non condividano la mentalità “post imperiale” euroamericana. Di conseguenza, preso atto del palese indebolimento egemonico americano, tendono a riposizionarsi nel nuovo contesto multipolare per sfruttarne le opportunità economiche e politiche. 


Due. La Russia (e in prospettiva la Cina) condividono con il mondo post coloniale una serie di elementi culturali che gli occidentali considerano “arretrati”, né sopportano che l’Occidente pretenda di esportare i suoi principi presuntamente “universali”, come i valori “politicamente corretti” in materia di omosessualità, femminismo, laicità dello stato, ecc. In particolare, dal momento che le loro fedi religiose non hanno subito processi di azzeramento totale simili a quelli che si sono verificati in Occidente, rivendicano questi spazi di diversità culturale (Todd cita l’esempio dell’Islam, che non oppone solo l’Occidente ai Paesi musulmani ma anche al resto del mondo, dove l’islamofobia è meno diffusa o assente). 


Tre. Il terzo argomento è a mio avviso il più interessante (ci tornerò sopra fra breve). Tutti ci siamo interrogati sui motivi delle analogie fra l’anticomunismo del secondo dopoguerra e la russofobia dei giorni nostri, ormai priva di giustificazioni ideologiche (quella della difesa della democrazia, scrive Todd, benché sfruttata propagandisticamente, appare svuotata di senso, dal momento che l’Occidente è più oligarchico della “democrazia autoritaria” russa). Ebbene Todd sostiene che la continuità dell’antagonismo fra Oriente e Occidente (ma anche fra Sud e Nord del mondo) consiste nel fatto che solo da noi i legami comunitari sono stati integralmente dissolti dai processi di atomizzazione individualista innescati dallo sviluppo capitalistico. Viceversa il comunitarismo di origini contadine che aveva favorito l’ascesa del comunismo in Russia (4) (per tacere della Cina) è in qualche modo sopravvissuto al crollo del sistema sovietico grazie alla diversità di strutture famigliari rispetto a quelle occidentali. Questa opposizione vale a maggior ragione per la grande maggioranza dei Paesi del Sud del mondo, così come vale l’annotazione di Todd secondo cui gli interessi popolari occidentali divergono da quelli delle rispettive élite e convergono oggettivamente con gli interessi strategici della Russia (analogamente a quanto avveniva quando la Russia era socialista).


Tutti questi fattori concorrono a indebolire il dominio imperiale dell’Occidente, eppure le nostre élite sembrano ignorarli (nel senso che ne ignorano letteralmente l’esistenza). Al punto che appaiono convinte che, anche solo per  difendere ciò che resta dell’impero, la guerra contro la Russia debba essere prolungata fino a ottenere una impossibile vittoria. Per i leader occidentali, scrive Todd, la possibilità della pace sembra una minaccia maggiore della guerra atomica. Così arrivano a fornire all’Ucraina mezzi di attacco a lungo raggio senza capire che in questo modo spingono la Russia a estendere le conquiste territoriali per tenere a distanza la minaccia, ma soprattutto senza capire – o ignorando irresponsabilmente – la possibilità che la Russia, ove percepisca una minaccia diretta alla propria sicurezza, ricorra, come ha già più volte ammonito, all’uso di atomiche tattiche. Dietro questa apparente follia, Todd individua una motivazione “razionale” che non attiene alla geopolitica bensì alla psicologia: per gli USA, scrive, la sconfitta significherebbe cadere nel ridicolo, per cui viene percepita come una minaccia mortale. Eppure solo con una buona dose di realismo si potrebbe evitare che la sconfitta assuma proporzioni tragiche, o peggio, che il conflitto degeneri in guerra nucleare. 


Soldati russi sul fronte ucraino



Mi avvio a concludere. Credo che l’importanza del libro di Todd consista soprattutto nel dimostrare come l’attuale politica euroamericana risulti, oltre che rischiosa i fini della sopravvivenza della specie,  insensata dal punto di vista degli stessi interessi di lungo periodo dell’Occidente (dal punto di vista, cioè, della conservazione di quanto resta della sua egemonia). Dopodiché ribadisco che l’attenzione che sta ottenendo da un sistema mediatico pur blindato su posizioni belliciste e russofobe, si spiega con il fatto che il suo approccio, ancorché critico, appartiene, al pari della linea editoriale della rivista “Limes” (5), alla tradizione di un certo realismo geopolitico (da Kennan a Kissinger), e anche  con il fatto che le sue argomentazioni sono in linea con i canoni della ragione liberale, come mi appresto a dimostrare. 


In primo luogo - anche senza sposare la rigida distinzione fra fattori strutturali (economici) e fattori sovrastrutturali (culturali) cara al marxismo ortodosso, e anche riconoscendo, con Gramsci e Lukacs (6), il peso “materiale”delle ideologie nella determinazione degli eventi storici – il suo punto di vista appare radicalmente idealista: basti citare le assurde affermazioni “psicologistiche” citate sopra, da quella secondo cui la russofobia dei paesi dell’Est Europa sarebbe il frutto del “debito inconscio e represso” delle loro classi medie nei confronti dell’Unione Sovietica, a quella secondo cui il velleitario bellicismo inglese nascerebbe da sentimenti di nostalgia imperiale. Il nesso causale fra tutti i fenomeni analizzati da Todd – dal degrado socioculturale americano allo svuotamento di senso del progetto europeo – e le mutazioni economiche dell'ultimo mezzo secolo è dimostrato, come lui stesso ammette, dal fatto che tali fenomeni si sono prodotti in un arco temporale – dalla crisi degli anni Settanta a quella dei primi del Duemila – che coincide con i processi di globalizzazione, terziarizzazione e finanziarizzazione associati alla svolta neoliberale. Ciò non significa che le concause culturali siano state marginali, ma che vanno analizzate in quanto contributi sinergici alle mutazioni socioeconomiche. 


Un discorso a parte mi pare vada fatto sulla questione del venir meno delle fedi religiose che Todd indica come la prima ragione del declino occidentale. Il processo di secolarizzazione inizia ovviamente assai prima dei fenomeni che stiamo qui discutendo, ma ciò non significa che gli debba essere attribuita una priorità logica rispetto ad altri nessi causali. Todd è un weberiano “ortodosso”, nel senso che accetta senza riserve – senza tenere conto cioè delle critiche che le sono state rivolte - la tesi di Weber che associa l’etica protestante allo spirito del capitalismo, per cui si capisce come possa affermare che, una volta raggiunto quello che definisce “il grado zero” della religione, le élite capitaliste postmoderne siano divenute incapaci di elaborare una strategia coerente. Questo punto di vista rispecchia tuttavia una visione unidirezionale della storia, la quale procederebbe  irreversibilmente verso una secolarizzazione che si autodistrugge, nel senso che prima ridurrebbe a meri residui i valori e i principi religiosi per poi azzerarli del tutto. 


Questa mitologia “progressista” tipica dell’illuminismo borghese (condivisa sia da chi considera il progresso, da destra, come una catastrofe, sia da chi vorrebbe, da sinistra, accelerarne il corso, sia da chi, come Todd, lo vede come un fenomeno “oggettivo”) impedisce di cogliere non solo le controtendenze che operano nel processo storico, ma anche e soprattutto il fatto che la secolarizzazione è un agente trasformativo: non annienta i valori religiosi ma li conserva superandoli (vedi il concetto hegeliano di aufhebung). L’ideologia neocons ne è un esempio chiarissimo: abbiamo visto sopra come Todd parli di “popoli che a furia di leggere la Bibbia hanno finito per credersi eletti da Dio” ; ebbene questo è esattamente il caso di quel mix di mitologia protestante ed ebraica su cui si fonda la narrazione dell’eccezionalismo americano e della sua missione di “convertire” il resto del mondo. Le fedi religiose che alimentano questo delirio non sono morte, azzerate, sono mutate nel dispositivo ideologico che alimenta il sogno imperiale al di là e oltre l’esaurimento della sua capacità egemonica. Dopodiché tutto ciò non spiega da solo la volontà americana di proseguire la guerra contro ogni ragionevole speranza di vittoria: il punto non è tanto, come scrive Todd, la paura del ridicolo che comporterebbe la sconfitta (un ridicolo che gli USA hanno già sperimentato in Vietnam, in Iraq e in Afganistan), è il fatto che l’Occidente è costretto a difendere disperatamente l’egemonia che gli consente di continuare a vivere alle spalle delle nazioni che gli hanno sottratto il monopolio della produzione di ricchezza materiale.  


Infine: in precedenza ho promesso che sarei tornato sulla questione del rapporto che Todd instaura fra comunismo e tradizioni comunitarie, tradizioni che comportano una compresenza di egualitarismo e accettazione di una autorità centrale che incarna simbolicamente la comunità, e che sarebbero a suo avviso il trait d’union fra Russia, Cina e gli altri Paesi del fronte mondiale che si viene configurando contro il dominio occidentale. Anche qui il rischio consiste nel considerare queste realtà antropologiche (cioè culturali in senso forte, nel senso che determinano in misura significativa le relazioni socioeconomiche e le ideologie politiche, e non solo i valori collettivi e individuali) come “residuali”. Un errore in cui anche il marxismo dogmatico è incorso, non riuscendo a spiegare il fatto che la rivoluzione socialista abbia vinto solo in Paesi “arretrati” (vedi quanto ho scritto altrove in proposito (7)). Per questo ritengo che questa sia l’intuizione più importante contenuta nel libro di Todd. E per lo stesso motivo ritengo che la formazione di un’ampia area mondiale di popoli e nazioni accomunati da una serie di tradizioni che si sottraggono alla omologazione da parte della cultura occidentale rappresenti, a prescindere dalle differenze ideologiche che la striano, una formidabile occasione per la nascita di un fronte antimperialista che in prospettiva potrebbe assumere valenze anticapitaliste (si ripresenta cioè in condizioni storicamente più favorevoli la scommessa del congresso di Baku del 1920 e della conferenza di Bandung del 1955). 


Note 


(1) La sociologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann definisce così la situazione che si instaura allorché la schiacciante maggioranza dell'opinione pubblica condivide una certa idea, per cui chi non la condivide tende a non esprimerla pubblicamente per evitare condanne morali. Cfr. E. Noelle-Neumann, La spirale del silenzio, Meltemi.


(2) Cfr. G. Mearsheimer, La grande illusione, Luiss University Press, Roma 2019. 


(3) Cfr. M. Weber, Sociologia della religione, Volume primo, Parte Prima, Edizioni di Comunità, Milano 1982. 


(4) Cfr. P. P. Poggio, L'obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia,  Jaka Book, Milano 1976. 


(5) Vedi in particolare "Limes" 2024, N° 4, "Fine della guerra". 


(6) Cfr. in particolare G. Lukacs, Ontologia dell'essere sociale, 4 voll., Meltemi, Milano 2023. Ho discusso il concetto di ideologia come potenza materiale che Lukacs espone in quest'opera, e del suo rapporto con l'analogo concetto gramsciano, sia nella Prefazione all'edizione di Meltemi appena citata, sia nel saggio Ombre rosse, Meltemi, Milano 2022. 


(7) Vedi C. Formenti, Guerra e rivoluzione, Vol I, Cap. I, La cassetta degli attrezzi, Meltemi, MIlano 2023. 




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