Lettori fissi

martedì 31 dicembre 2024

APOLOGIA DI LUKACS 







I miei ultimi lavori (1) devono molto alla interpretazione che l’ultimo Lukacs (2) ha dato del pensiero di Marx. Analizzando i concetti fondamentali della ontologia lukacsiana in un ciclo di lezioni che sto tenendo per il Centro Studi Domenico Losurdo (la più recente si può ascoltare all’indirizzo You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=z6q7KhmGK5g ) mi sono reso conto che, in tutte le cose che ho sin qui scritto e detto su di lui, ho fatto solo brevi accenni alla sua biografia. È vero che, ragionando su un pensiero di grande spessore le considerazioni relative all’opera tendono a prevalere su quelle dedicate alla figura dell’autore, tuttavia, nel caso specifico, tale approccio non è del tutto appropriato. Non solo perché la sua vicenda umana ha incrociato eventi storici di enorme portata - la Prima guerra mondiale, le Rivoluzioni russa e ungherese, lo stalinismo, la Seconda guerra mondiale, l’insurrezione ungherese del 56 – e personaggi della statura di Georg Simmel, Max Weber, Thomas Mann, Ernst Bloch, Lenin e Stalin. Ma perché proprio il fatto di aver attraversato – uscendone indenne – queste grandi prove, ha fatto sì che critici e detrattori abbiano potuto attribuirgli una “prudenza” al limite della pavidità, se non di un vero e proprio opportunismo. Il tutto al fine malcelato di sminuire la portata del suo pensiero. 


È per questo che ho deciso di rimettere mano a una sua lunga intervista autobiografica (Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo) pubblicata in edizione italiana dagli Editori Riuniti nel 1983. Nelle pagine che seguono ne richiamerò alcuni passaggi perché ritengo che, da questa “confessione”, emerga un profilo di straordinaria coerenza personale, politica, ideale e morale, anche – se non soprattutto – nelle discontinuità e nei ripensamenti autocritici: la sua storia è quella di un intellettuale e militante comunista che, pur consapevole delle contraddizioni e delle storture emerse nel corso del grande esperimento sociale inaugurato nell’Ottobre 1917, non ha mai voluto “salvarsi l’anima” (e intraprendere una ricca carriera in qualche università occidentale) indossando i panni del “dissidente”, perché, dichiara, è sempre rimasto convinto che “sia meglio vivere nella peggior forma di socialismo che nella miglior forma di capitalismo”.


Nato a Budapest nel 1885, in una ricca (il padre dirigeva una banca di investimento) famiglia ebraica (ma pare che in casa vigesse una totale indifferenza per la religione) il piccolo Lukacs manifestò una precoce insofferenza nei confronti di ogni forma di imposizione (rifiutava sistematicamente di sottoporsi al rigido “protocollo” domestico che la madre cercava di imporre). Le aspettative famigliari erano concentrate sul fratello maggiore che però, malgrado l’assiduo impegno nello studio, non ottenne mai grandi risultati, mentre a lui, dotato di una memoria prodigiosa, bastavano poche ore per eccellere a scuola (anche se evitava accuratamente di apparire come il primo della classe). 


Ignorando il desiderio paterno di avviarlo a studi economico-giuridici (la sua prima laurea fu effettivamente in diritto, ma nell’intervista rivela di avere nutrito fin da giovanissimo un profondo disprezzo per il mondo della finanza e per i valori borghesi in generale), si appassionò soprattutto alla letteratura e al teatro (a quindici anni scriveva drammi che bruciò pochi anni dopo) ma ben presto, confessa, dovette prendere atto con sua grande delusione di non avere abbastanza talento per aspirare ad essere uno scrittore o un regista. Il che non gli impedì di continuare a occuparsi di arte e letteratura, come testimoniano testi come L’anima e le forme e Teoria del romanza, anche se la passione filosofica (in particolare per la grande filosofia tedesca - Hegel su tutti – della quale subirà l’influsso per tutta la vita) si accompagnerà sempre più alla passione letteraria, finendo per prevalere. Suo compagno di studi a Berlino, dove ebbe per maestro Georg Simmel (ma Lukacs subì anche l’influsso di Max Weber)  fu Ernst Bloch (un’amicizia destinata a durare tutta la vita, sia pure con momenti di allontanamento reciproco) al quale riconosce il merito di avergli insegnato a “filosofare al modo di Aristotele ed Hegel”. 


L’avvicinamento al marxismo, e più in generale alla problematica politica, fu lento e progressivo. Negli anni precedenti alla Grande Guerra, viene a conoscenza del socialismo francese e riconosce nel teorico del sindacalismo rivoluzionario Georges Sorel “l'unico serio movimento socialista di opposizione”. Sconvolto dallo scoppio della Prima guerra mondiale, assume una posizione di condanna radicale nei confronti del carnaio provocato dalle potenze europee. In quegli anni, racconta, lui e la cerchia dei suoi amici pacifisti pensavano che se i regimi feudali avessero perso la guerra sarebbero caduti ma, a differenza della maggior parte degli altri, egli non condivideva l’auspicio che venissero rimpiazzati da regimi democratici.“Chi ci avrebbe difeso dalla democrazia occidentale?, pensavo, né ero disposto ad accettare come ideale il parlamentarismo inglese”. Così, quando scoppia la Rivoluzione russa del 1917, capisce immediatamente che quella è la vera alternativa e, a partire da quel momento, il suo interesse si rivolge esclusivamente ai temi etici e politici, cessando di attribuire importanza alle questioni estetiche al centro della sua attenzione nel decennio precedente.


Nel 1918 viene costituito il Partito Comunista ungherese e Lukacs aderisce, anche se non fu fra i fondatori. Nell’intervista dichiara che la sua immagine del comunismo era allora “settaria e ascetica”, cioè fortemente connotata in termini morali e caratterizzata da aspettative “messianiche”, motivo per cui si trovò spesso in contrasto con Bela Kun che, dal suo punto di vista, incarnava la logica burocratica del funzionario di Partito (in alcune occasioni, in seguito a tale conflitto fu indotto a compiere autocritica). In ogni caso durante la Rivoluzione del 1919, in quanto figura intellettuale di spicco, viene chiamato a svolgere l’incarico di Commissario all’Istruzione e assume addirittura il ruolo di commissario politico di una divisione dell'esercito rosso (nell’intervista ricorda che, mentre esercitava tale funzione, ordinò di fucilare otto soldati di un reparto che si era ritirato senza combattere durante la guerra civile con i Bianchi). 


Un manifesto della Rivoluzione ungherese del 1919



Dopo il fallimento della Rivoluzione riparò a Vienna, dove ebbe modo di frequentare dirigenti e intellettuali comunisti di tutta Europa, e dove si rese conto che la sua cultura marxista era ancora insufficiente, e che ancora più era insufficiente la sua comprensione del  leninismo. A posteriori, definisce la sua posizione di allora come “un miscuglio di settarismo e messianesimo” (“credevamo che la rivoluzione mondiale fosse un fatto tanto inevitabile quanto imminente”, racconta). Da un lato, simpatizzava con l’ala sinistra della III Internazionale (di cui facevano parte, fra gli altri, Bordiga e Pannekoek), tanto che fu criticato da Lenin per avere difeso posizioni astensioniste di principio. Ma dall'altro lato, il bagno di concretezza cui era stato costretto dall’esperienza di Commissario della Repubblica ungherese dei Consigli, lo costringeva talvolta a contraddirsi, assumendo posizioni realiste. Come avvenne nel 1928, allorché si trovò di nuovo costretto a fare autocritica per avere scritto le “Tesi di Blum” (uno pseudonimo adottato per l’occasione), nelle quali sosteneva che il Partito avrebbe dovuto opporsi al regime reazionario di Horthy al fianco dei socialdemocratici per instaurare una Repubblica democratica, e solo in un secondo tempo lottare per il socialismo (posizione contraria alla linea sostenuta in quel momento dalla III Internazionale, che di lì a non molto l’avrebbe però cambiata).


Bela Kun parla alla folla



Proiettandoci fino al 28 abbiamo tuttavia saltato un passaggio fondamentale: nel 1923, usciva infatti Storia e coscienza di classe, una raccolta di saggi che ancora oggi rappresenta l’opera di Lukacs più conosciuta (e celebrata) dai marxisti di tutto il mondo. Eppure, nell’intervista autobiografica che sto qui illustrando, come nella Prefazione a una ristampa del 1967 dell’opera in questione (3), e come nei riferimenti che egli le dedica nella Ontologia dell’essere sociale, Lukacs è a dir poco severo nei confronti del lavoro del 23. Pur riconoscendovi un certo valore, perché in esso venivano affrontati per la prima volta alcuni problemi – come quello dell’estraneazione – fino ad allora evitati dal marxismo, e perché inquadrava la teoria leniniana della rivoluzione nella concezione generale del marxismo, il Lukacs maturo la considerava infatti inficiata da residui idealisti (in quelle pagine ero “più hegeliano di Hegel”). 


In particolare, come ho messo in luce in varie occasioni (4), l’ultimo Lukacs punta il dito contro l’ipostatizzazione del ruolo “oggettivamente” rivoluzionario del proletariato (5), ma soprattutto contro la mancata integrazione del ricambio organico fra uomo e natura nell’economia, la quale viene in tal modo ridotta alla forma storicamente determinata che essa assume nella società capitalista,invece di essere concepita come totalità costituiva dell’essere sociale, come prodotto del processo evolutivo che fa derivare dalla natura inorganica la natura organica e da quest'ultima l’essere sociale attraverso il lavoro, che costituisce l’unica manifestazione di un’attività teleologica nell’universo naturale. 


Nelle ultime battute dell’intervista Lukacs sintetizza la propria visione più o meno così: “seguendo Marx io mi rappresento l’ontologia come la vera filosofia basata sulla storia. Storicamente è indubbio che l’essere inorganico viene per primo e che da esso viene fuori l’essere organico. Da questo stato biologico viene fuori attraverso molti passaggi l’essere sociale umano la cui essenza è la posizione teleologica, cioè il lavoro. Questa è la categoria più decisiva perché comprende tutto. Quando parliamo della vita umana parliamo con le più diverse categorie di valore. Qual è il primo valore? Il primo prodotto? Un mazzuolo di pietra o corrisponde allo scopo o non corrisponde nel primo caso è valido, nel secondo non ha valore (…) la seconda differenza fondamentale è il dover-essere cioè le cose non si trasformano da sé ma in seguito a posizioni consapevoli, lo scopo precede il risultato”.


Gyorgy Lukacs



Questa visione ha radicali conseguenze sul modo in cui l’ultimo Lukacs tratta concetti come libertà, necessità, oggettivazione, alienazione, ideologia, ecc. Ma questi temi esulano dallo scopo del presente articolo il quale, come chiarivo all’inizio, consiste nel mettere in luce la coerenza personale, politica, ideale e morale dell’uomo di cui stiamo parlando. I cambiamenti di approccio metodologico e di posizione ideologica sin qui descritti, fanno parte della normale dialettica di un percorso biografico. ma le critiche dei detrattori si appuntano in altre direzioni, sollevando interrogativi associati al fatto che il nostro, dopo l’ascesa al potere di Hitler, ha vissuto ininterrottamente a Mosca dal 1933 alla fine della Seconda guerra mondiale senza incappare in qualche “purga”, e che, pur avendo assunto un incarico ministeriale nel governo Nagy nel 1956, dopo l’invasione sovietica se l’è cavata con un paio d’anni di esilio in Romania, dopodiché è potuto rientrare a Budapest e riprendere il proprio lavoro di insegnamento e ricerca. 


Opportunismo, mancanza di coraggio, complicità con lo stalinismo e più in generale con i regimi di “socialismo reale”? Queste accuse, esplicite o implicite, sono state usate da destra (ma anche da certi ambienti intellettuali della “Nuova Sinistra”) per svalutare e/o rimuovere il contributo di Lukacs al marxismo, per cui mi pare giusto affrontarle a partire da ciò che lo stesso filosofo ungherese racconta sulla seconda parte della propria vita. 


A Mosca Lukacs aderisce  al partito comunista russo e lavora all’istituto Marx-Engels. La sua è un’attività prevalentemente se non esclusivamente teorica, mentre sul piano politico mantiene un basso profilo, evitando di impegnarsi nei conflitti di potere interni alla dirigenza bolscevica. Ciò non gli impediva di nutrire le proprie opinioni in merito, opinioni che espone chiaramente rispondendo alle domande dell’intervistatore. 


Su Stalin, in particolare, afferma che l’idea diffusasi dopo il XX Congresso del Pcus, secondo cui egli avrebbe detto solo cose sbagliate e antimarxiste è un pregiudizio. Ciò detto, egli è radicalmente critico nei confronti della visione filosofica staliniana, che definisce iper razionalista, anche se, a suo avviso, non priva di precedenti nella tradizione marxista. In particolare, la visione di un processo storico che incorpora un principio di necessità logica (Lukacs cita per esempio il concetto di “negazione della negazione” mutuato da Hegel, che egli considera appunto una categoria puramente logica, priva di consistenza reale: “per Marx, dice, un ente non oggettivo è un non ente, l’essere è identico alla oggettività”) era a suo avviso già presente in Engels e negli esponenti della socialdemocrazia tedesca. La storia, analizzata da tale punto di vista, appare come una successione di tappe di un processo determinato da una ferrea legalità immanente (comunismo primitivo, schiavismo. feudalesimo, capitalismo, socialismo) e non come l’esisto di una serie di trasformazioni concrete rese di volta in volta possibili (e non necessarie) da specifici meccanismi causali (ma anche da fattori contingenti e soggettivi). Il materialismo dialettico (diamat) staliniano concepisce solo soluzioni imposte dalle leggi “oggettive” della storia e non scelte fra possibilità alternative, la sua idea di “socialismo scientifico” è ispirata a una legalità simile a quella delle leggi naturali e non contempla, marxianamente, la complessità dinamica dei concreti processi storici.


Sul piano politico, tuttavia, Lukacs non nasconde di essere stato dalla parte di Stalin – contro Trockij – sulla questione del socialismo in un paese solo e, quanto al ruolo della opposizione di sinistra guidata dallo stesso Trockij e da altri esponenti della vecchia guardia bolscevica, come Zinoviev, Bucharin e Kamenev, dichiara di avere condiviso l’opinione di altri amici e compagni che frequentava in Russia: in primo luogo, rimprovera loro di avere offerto argomenti alla campagna antisovietica delle potenze imperialiste occidentali, ma soprattutto esprime la convinzione che una loro dittatura di partito non sarebbe stata diversa, né migliore, di quella imposta da Stalin. Ricorda che a un certo punto Bucharin cercò di contattarlo per coinvolgerlo nella lotta intestina del partito ma egli si negò (per inciso: Lukacs e Bucharin si erano precedentemente scontrati in una polemica sulla questione del ruolo storico dello sviluppo delle forze produttive che Bucharin, sostiene Lukacs, riduceva allo sviluppo tecnologico. Tuttavia il motivo del rifiuto – che con buona probabilità evitò a Lukacs di finire nella tagliola dei processi di Mosca – fu piuttosto il giudizio negativo sul ruolo dell’opposizione appena ricordato). 


Ciò detto, quando l’intervistatore sollecita la sua opinione sui processi di Mosca, Lukacs non si sottrae: “li giudicai una mostruosità”, dice, ma mi consolai dicendomi che in quel momento “stavamo dalla parte di Robespierre” e che il processo contro Danton non era stato meno ignobile. Ma soprattutto afferma che in quel periodo considerava l’annientamento di Hitler come la questione di gran lunga più importante e che gli pareva evidente che solo l’URSS avrebbe potuto garantirlo (6).


Quanto alla rivolta ungherese del 1956, Lukacs afferma di averla interpretata come un grande movimento spontaneo che, sostiene, aveva bisogno di un inquadramento ideologico, per cui non esitò ad accettare l’incarico di ministro anche se Nagy non aveva, a suo avviso, uno straccio di programma politico. In ogni caso, il suo punto di vista non era in alcun modo quello di un rottura con il sistema socialista bensì quello della necessità di riformarlo (vedi la già citata affermazione “meglio vivere nella peggior forma di socialismo che nella miglior forma di capitalismo”), tanto è vero che egli si oppose alla, e votò contro la, proposta di uscire dal Patto di Varsavia. Un atteggiamento che, dopo l’invasione sovietica, lo aiutò a pagare il prezzo relativamente mite di qualche anno di esilio in Romania, prima di tornare a insegnare a Budapest. 


Carri armati russi a Budapest



Opportunismo, mancanza di coraggio? I primi a formulare l’accusa di non avere esplicitamente condannato il socialismo reale sono stati, ahimè, alcuni suoi allievi, lo si evince dal tono malevolo e insinuante di certe domande rivoltegli da Istvan Eorsi (il curatore dell’intervista appena descritta) , ma soprattutto, lo si evince da quanto scrive Nicolas Tertulian nella Introduzione alla Ontologia, facendoci capire perché il testo di quest'opera fondamentale sia apparso con tanto ritardo dalla stesura definitiva, preceduto da recensioni negative di quegli allievi (fra i quali tale Agnes Heller, poi felicemente approdata sulle sponde del liberalismo occidentale) che avevano fretta di certificare la propria volontà di ripudiare il marxismo e il socialismo. 





Lukacs non piace ai comunisti dogmatici, che lo considerano un dissidente filo occidentale camuffato da marxista critico (e lo avrebbero magari volentieri visto sul banco degli imputati dei processi di Mosca). Non piace ai postcomunisti convertiti al liberalismo, che non capiscono la sua ostinazione nel volersi schierare fino alla fine dalla parte del socialismo contro il capitalismo occidentale. Non piace ai marxisti accademici di ogni risma che, dall’alto delle loro cattedre universitarie, si considerano i soli legittimati a interpretare l’autentico lascito di Marx. Non piace agli intellettuali e ai militanti di nuove sinistre e nuovi movimenti, i quali quando leggono affermazioni come “lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale , non aumenta affatto la conoscenza che gli uomini hanno circa la vera natura delle reificazioni da essi spontaneamente compiute. Riscontriamo al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a queste forme di vita, ad appropriarsene con intensità sempre maggiore, sempre più determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana” (Ontologia, vol IV, p. 649), sospettano che le sue parole potrebbero essere usate contro la loro esaltazione acritica della tecnologia, del consumismo santificato come “nuovi bisogni”, del gusto piccolo borghese della trasgressione, del “diritto di avere diritti” (7), ecc. 


Credo che tutte queste antipatie rappresentino il miglior attestato dell’integrità politica, morale e intellettuale di Lukacs. Concludo limitandomi ad aggiungere che ignoro in che misura i marxisti non occidentali (cinesi, africani e latinoamericani) abbiano avuto modo di conoscere e studiare l’ultimo Lukacs o se conoscano solo Storia e coscienza di classe, ma penso che i teorici post maoisti lo avrebbero sicuramente apprezzato, così come lui avrebbe guardato con estremo interesse alla riforme cinesi degli anni Settanta.


Note.


(1) Vedi, in particolare, Guerra e rivoluzione, 2 voll. Meltemi, Milano 2023; Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019; Ombre rosse. Saggi sull’ultimo Lukacs e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.


(2) G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023.


(3) Cfr. Prefazione dell’autore a Storia e coscienza di classe, Sugar Editore, Milano 1970.


(4) Vedi in particolare Ombre rosse, op. cit. Vedi anche la mia Prefazione alla seconda edizione della Ontologia.


(5) Nella Prefazione del 1967 (vedi nota 3) Lukacs scrive che in  Storia e coscienza di classe il proletariato veniva presentato come l’incarnazione storica della hegeliana unità metafisica soggetto-oggetto descritta nella Fenomenologia dello spirito.


(6) Anche il Patto di non aggressione fra Hitler e Stalin appare giustificato come mossa tattica per sventare il piano delle potenze occidentali di usare la Germania nazista per distruggere l’Unione Sovietica.


(7) Cfr S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012. In un libro a due mani del 2019 (Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi editore) il sottoscritto e Onofrio Romano hanno criticato l’ideologia della sinistra liberal progressista che rivendica un’estensione illimitata dei diritti individuali, la quale finisce inevitabilmente per alimentare una altrettanto illimitata estensione del mercato delle merci-servizio (maternità assistita, utero in affitto, ecc.). 

1 commento:

  1. Caro Carlo, questo commento è il primo dell'anno, ed è un commento che risale alla prima lettura dell'anno, che si riferisce al tuo post. Ha una natura affettiva – il commento – perché mai avrei letto qualcosa (nemmeno su Lukacs) se non fosse stata scritta da te. Mi pare che ciò che scrivi sull'autobiografia di Lukacs possa avere un aggancio con la tua personale appartenenza al mondo, e quindi mi interessa. Ciò che trovo ammirevole è l'idea di autorappresentarsi come un soggetto in grado di navigare nelle complicatissime acque di un movimento – quello comunista – che non c'è. Un Lukacs, al colmo delle sue contraddizioni, deve la propria ontologia (cioè la propria salvezza) al fatto che qualcosa di potente esiste in senso collettivo, al netto dei propri terribili errori: ciò che esiste e si erge contro ogni forma di capitalismo è il socialismo, che c'è. Un muro alla fine lo inquadra, e da quel muro prende forma qualcosa che sembra non avere niente a che fare con il capitalismo. Da quel muro prendono altresì forma concomitanze inaudite e terrificanti (arresti indiscriminati, torture, autocritiche estorte, esecuzioni), ma nello stesso tempo si attuano resistenze all'idea di un dominio eterno del profitto, fonte primaria di altri tipo di dominio, che può arrivare fino allo sterminio di interi popoli e alla dittatura nazionalista pura. Se da una parte c'è il capitalismo, da quella stessa parte potrà venire il nazismo, e da esso – pur perdente – un nuovo genere di asfissia sociale generale.
    Per questo il genio lukacsiano non incorre nelle purghe. Perché egli è comunque schierato con una parte del muro. Ma egli vede qualcosa,
    che si agita all'interno del movimento socialista, in grado di autocorreggersi. Lukacs non può vedere nulla di "giusto" nel negare il principio di non contraddizione che si cela dietro processi e purghe, ma percepisce nell'immane fatica della pratica anticapitalistica qualcosa che svetta sui vari tentativi interni di riforma del capitalismo e sulle ipocrisie ontologiche che bloccano l'essere umano, incastonato nelle
    illusioni democratiche e nelle peripezie dei supposti esseri liberi, preda di un volo spirituale che non può andare al di là della simulazione. Un volo di galline, insomma.

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