Lettori fissi

domenica 9 maggio 2021

POLITICAMENTE CORRETTO

UN'IDEOLOGIA AUTORITARIA E VIOLENTA 


Nel momento in cui la pandemia sta provocando centinaia di migliaia di morti e milioni di disoccupati e nuovi poveri, per tacere della sospensione della democrazia decretata dalla nomina di Mario Draghi a proconsole della provincia italiana da parte delle oligarchie occidentali che preparano una nuova guerra mondiale per uscire dalla crisi, la sinistra non trova niente di meglio che eleggere a proprio eroe un giullare di regime come il rapper e  influencer Fedez, o spendersi per l’approvazione di una legge (presentata dal Pd Alessandro Zan) che andrebbe a rafforzare la rete di lacci e laccioli con cui l’ideologia del politicamente corretto imbriglia la libertà di espressione. Opporsi volta per volta alle mosse di questa politica che conduce a piccoli passi verso l’instaurazione di un regime al cospetto del quale i cosiddetti “totalitarismi”, contro i quali veniamo quotidianamente sollecitati a protestare, ci sembreranno modelli di libertà, non basta più: è il momento di lanciare una controffensiva sistematica e, visto che le forze politiche che dovrebbero condurla sul terreno politico e istituzionale sono al momento deboli, soverchiate dal rumore mediatico, il fronte principale su cui combattere è quello della lotta ideale, a partire dalla decodificazione dei legami che unificano le varie manifestazioni di questa offensiva “libertaria”, dietro alla quale si celano in realtà precisi interessi di classe ed esplicite mire autoritarie. 

Occorre aiutare chi tende a formarsi un’opinione su questa o quella singola questione a cogliere il quadro d’assieme, a capire le dimensioni e la pericolosità di un’operazione di indottrinamento di massa in corso a livello mondiale (sia chiaro che non alludo a un oscuro “complotto”: a creare le condizioni che consentono a interessi, aspirazioni, ideologie e progetti politici di convergere, fino a generare uno “spirito del tempo”, sono precisi processi di trasformazione materiale). Da questo punito di vista, i contributi critici di autori privi di etichette antisistema, portatori di un punto di vista in qualche misura “interno” ai valori e ai principi del liberalismo classico, sono particolarmente preziosi per inculcare qualche sano dubbio anche nella testa di chi non appartiene alla minoranza di coloro che si pongono esplicitamente al di fuori e contro tali valori e principi. È per questo che nei miei libri cito spesso due autori come Boltanski e Chiapello (1), i quali hanno descritto, con acribia scientifica e senza esprimere condanne etiche, la mutazione antropologica che ha permesso alle élite neoliberali di appropriarsi di parole d’ordine sessantottine, trasformandole in strumenti di controllo e di dominio sulla forza lavoro. Ed è per lo stesso motivo che in questo scritto, in cui cercherò di mettere in luce ciò che accomuna una costellazione di armi ideologiche di distrazione di massa di cui fanno parte il cosmopolitismo, l’ideologia no border, il linguaggio politicamente corretto, le filosofie post moderniste, il relativismo conoscitivo ed etico, il rivendicazionismo femminista e Lgbt, mi avvarrò del contributo di due autori, Jonathan Friedman (2) e Frank Furedi (3), non imputabili di nutrire velleità ”sovversive”, ma neanche di appartenere al campo delle ideologie conservatrici e reazionarie.






Sul cosmopolitismo. 

Furedi ricorda giustamente che uno dei numi tutelari dell’ideologia cosmopolita è il sociologo tedesco Ulrich Beck (4) (co- ispiratore, con il collega inglese Anthony Giddens, della famigerata “terza via” di Tony Blair e dei suoi emuli continentali, fra cui il PD). Beck è autore di saggi in cui evoca la categoria di “cosmopolitismo metodologico”, con la quale allude al fatto che, secondo lui, nessuna delle tradizionali sfide politiche del sistema democratico può essere affrontata e risolta a livello dello stato-nazione. Il protagonista della “rivoluzione cosmopolita” auspicata da Beck è un “cittadino globale” la cui identità appare affrancata sia dal luogo di nascita che da legami comunitari. Nella sua visione contano solo quegli individui che non appartengono ad alcuna comunità “prepolitica” (una figura puramente immaginaria, astratta, che Marx avrebbe liquidato come una “robinsonata”, visto che l’individuo non cade dal cielo, né può essere una monade, ma è il prodotto di molteplici determinazioni concrete, cioè sociali). I diritti di questo individuo cosmopolita - che sotto certi aspetti richiama il concetto di “persona” negli scritti dell’ultimo Rodotà (5) – sarebbero inscritti in un’etica umanitaria transnazionale che, secondo Beck, dovrebbe subentrare allo status di cittadino di una nazione. A queste tesi hanno attinto, fra gli altri, i militanti del movimento no border, riconoscendovi argomenti utili per sostenere i diritti di immigrati e rifugiati, ignorando il fatto che tali diritti potrebbero essere meglio difesi assumendo il punto di vista del “vecchio” internazionalismo proletario, il quale, al contrario del cosmopolitismo, non ha il difetto di prestarsi agli obiettivi strategici delle élite politico-culturali europee (e più in generale occidentali) ostili nei confronti dei popoli e delle democrazie nazionali, e desiderose di accentrare il potere nelle mani delle oligarchie transnazionali. 

Furedi dice poco sulle radici di classe di questa ideologia, limitandosi ad alludere all’esistenza di una “classe globalista” di professionisti e manager che si percepisce come de-territorializzata, in contrapposizione ai miliardi di persone che organizzano la propria vita in base all’appartenenza territoriale (le quali rappresentano tuttora la stragrande maggioranza dell’umanità). Del resto, nel suo lavoro, ripete in diverse occasioni di non credere alla possibilità di risalire alla cause “oggettive” che alimenterebbero determinate ideologie, alle quali attribuisce una autonoma dinamica evolutiva. Posto che non si tratta di “smascherare” cosa e chi “si nasconde” dietro certe idee, applicando quella categoria di “falsa coscienza” che lascio volentieri ai cultori del marxismo volgare, resta la necessità di capire come e perché una mutazione culturale abbia potuto imporsi, quali strutture socioeconomiche (quali interessi di classe) ne abbiano accompagnato e favorito la diffusione. In questo senso Friedman ha il merito dire qualcosa di più. Da un lato, punta il dito contro l’esigenza delle élite globalizzate di costruire un mondo multiculturale e transnazionale; esigenza che non nasce da un  mero “gusto culturale”, bensì da obiettivi assai concreti, come promuovere la mobilità internazionale della forza lavoro, importando forza lavoro a buon mercato o andandola a cercarla altrove - pratica che ha consentito di distruggere i rapporti di forza delle classi lavoratrici occidentali, livellandone verso il basso redditi e condizioni e di vita e alimentando il conflitto fra autoctoni e immigrati. Dall’altro lato, rivolge la propria attenzione sulla cosiddetta classe creativa (6), sul mondo degli analisti simbolici, della nuova classe manageriale che si muove e pensa velocemente, sulle élite mediatiche e accademiche che svolgono un ruolo essenziale nella fondazione di un nuovo regime di legittimità. 

Aggiungerei, sulla scia di quanto ho scritto in varie occasioni (7), che mentre i “nonni” di questi strati socioprofessionali erano stati, negli anni Sessanta e Settanta, terreno di coltura degli intellettuali di opposizione, i loro “nipoti” sfornano oggi un “intellettuale organico” di tutt’altro tipo, i cui interessi coincidono di fatto con quelli delle élite dominanti. La Silicon Valley e gli altri distretti dove si concentrano i settori più innovativi dell’economia e della finanza mondiali, sono i luoghi in cui questa sinergia di interessi fra neocapitalismo e classi medie colte emerge con chiarezza. Basti pensare alla solerzia con cui imprese come Google, Apple e Facebook si fanno promotrici dei principi del politicamente corretto, esaltando le pari opportunità di carriera che vengono offerte ai propri dipendenti e collaboratori, a prescindere dalle appartenenze etniche, di genere, preferenza sessuale, ecc. e sanzionando l’uso di linguaggi inappropriati al proprio interno.

A proposito della “società aperta”. 

Se Beck è il nume tutelare del cosmopolitismo, argomenta Furedi, a Karl Popper (8) spetta il ruolo di araldo della “società aperta”. Popper descrive le “società chiuse” (alludendo soprattutto, ça va sans dire, alle società socialiste) come alveari collettivisti ai cui membri è vietato assumere decisioni personali, ma non si limita a contrapporvi i Paesi a regime liberal democratico: esalta gli imperi in quanto modello di un sistema sovranazionale dotato di una mentalità e di istituzioni più aperte e illuminate (9). Né sembra lasciarsi scoraggiare dalla scia di crimini che ne hanno costellato la formazione, al contrario:  si spinge al punto di esaltarne la missione storica di intervenire negli affari interni delle comunità chiuse per costringerle ad  aprirsi. In poche parole: legittima l’imperialismo quale inevitabile portato del “fardello dell’uomo bianco” (infatti le società chiuse non sono solo quelle socialiste, ma anche le comunità “arretrate” che non conoscono il mercato capitalistico e la democrazia formale, incapaci di entrare nella modernità se non grazie all’aiuto di qualche “generosa” potenza colonizzatrice). 


Karl Popper



Friedman associa a sua volta questa visione agli interessi di quelle élite “globaliste” che considerano le nazioni come meri contenitori di risorse (materie prime, capitali, forza lavoro, terreni, ecc.) e non come unità politiche, per cui condannano il punto di vista “ristretto” delle culture localiste. Rispetto a Furedi, introduce tuttavia un importante elemento aggiuntivo: imperialismo e colonialismo sono ideologie che possono sussistere e operare anche all’interno dello stesso contesto nazionale e, a tale proposito, cita un progetto di legge svedese che, alla fine dei Novanta, preso atto che la Svezia, a causa dell’immigrazione di massa, non dispone più di una storia comune condivisa, dichiara che i cittadini svedesi vanno considerati come un gruppo etnico al pari di altri. Il multiculturalismo così inteso, commenta, significa che “il ceto politico viene a trovarsi al di sopra della nazione, cessando di esserne un’estensione”. Quindi aggiunge che questa forma di “pluralismo”, apparentemente ultra progressista, ha precursori di tutt’altro tipo: i primi a teorizzarla sono stati appunto gli imperi coloniali, istituendo un ordine basato sulla segmentazione e sul conflitto fra sudditi appartenenti a gruppi in competizione reciproca; l’eliminazione dei concetti di popolo, nazione e popolazione discende in linea diretta dalla pratica politica di imperi e regimi coloniali. È per questo, conclude, che il rapporto fra governanti e governati tende a somigliare sempre più a quello fra colonizzatori e colonizzati; è per questo che il conflitto fra destra e sinistra viene soppiantato da quello fra centri e periferie (non solo a livello globale ma anche all’interno di ogni singola nazione); ed è per questo, infine, che i sistemi politici occidentali assumono sempre più l’aspetto di regimi dispotici retti da un autoritarismo liberale o un liberalismo autoritario. 

L’elevazione dell’apertura a valore in sé e per sé, nota ancora Furedi, non si esaurisce nell’ideologia che contesta i confini fisici. In nome dell’apertura si esalta l’esibizione dei pensieri intimi (chi apprezza la riservatezza ha qualcosa da nascondere) (10); le solidarietà prepolitiche associate a legami famigliari, comunitari, di fede religiosa, ecc. sono bollate come vincoli arcaici da sciogliere in quanto nemiche dell’emancipazione individuale e del progresso; il personale viene politicizzato (“il personale è politico!”), nel senso che i politici vengono valutati per le qualità personali più che per le idee, mentre si diffonde la convinzione (particolarmente diffusa in ambito ambientalista, femminista e più in generale nelle culture alternative che predicano di cambiare il mondo “partendo dal basso”) in base alla quale i problemi sociali si risolverebbero cambiando i comportamenti personali. Last but not list l’esaltazione della “trasparenza” fine a sé stessa fa sì che i media sfornino a getto continui programmi basati sull’esibizione pornografica di sofferenze, sentimenti, performance erotiche, ecc.   


Il rifiuto del pensiero binario e dei confini simbolici. 

Gli esseri umani non hanno mai potuto fare a meno di pensare in termini binari, di escogitare complessi sistemi fondati su costellazioni di contrapposizioni polari. L’apeiron, l’indifferenziato, per gli antichi era sinonimo di caos primordiale, una dimensione inabitabile per uomini e dei governata da entità maligne. Ciò non vale solo per la religione e il mito – si pensi all’analisi strutturale di Levi Strauss – ma anche per il moderno pensiero scientifico e filosofico: solo un pensiero dialettico è in grado di descrivere e comprendere un mondo in cui agiscono forze contrastanti. Ma le casematte accademiche delle ideologie postmoderniste, accusa Furedi, hanno scatenato una vera e propria crociata contro il pensiero binario. L’elogio dell’ambiguità, l’appello a rimpiazzare la logica dell’aut aut con quella dell’et et è uscito dalle università per investire il resto del mondo: opposizioni quali maschile/femminile, normale/anormale, ecc. vengono liquidate come strumenti di discriminazione, le idee binarie in campo sessuale accusate di “transfobia”; la trasgressione dei confini simbolici tracciati dal pensiero binario esaltata come un bene in sé (e il bello è che la trasgressione appare svuotata di senso a mano a mano che viene percepita come la nuova normalità, per cui diviene una trasgressione priva di oggetto). 

Per connotare questo divieto di tracciare confini simbolici, Furedi ricorre al neologismo “non giudicazionismo”, che sta a indicare il punto vista secondo il quale esprimere giudizi morali è un atteggiamento negativo perché discriminatorio. La critica viene condannata come un atto violento, come una “micro aggressione”: visto che io affermo questo in quanto donna, in quanto gay, ecc. tu non puoi criticarlo, altrimenti vuol dire che attacchi le donne, i gay, ecc. Ma rinunciare a giudicare, scrive Furedi, significa rinunciare alla ricerca della verità: tutto diventa relativo, ogni cosa dipende dal punto di vista del singolo individuo che parla, asserisce, guarda, ecc. 

La trasgressione dei confini simbolici eletta a principio fa sì che tutte le barriere tradizionali si liquefino, divengano fluide: gli adulti si infantilizzano (abdicando alle proprie responsabilità) mentre i piccoli si adultificano; infanzia e adolescenza si prolungano a dismisura, mentre i politici e i media predicano in continuazione la necessità di “ascoltare i giovani”, così una adolescente svedese viene fatta assurgere a icona dell’ambientalismo globale e chiamata ad arringare l’assemblea delle Nazioni Unite, e la proposta di estendere il voto ai sedicenni guadagna proseliti. L’ambivalenza, l’ibridismo, la fluidità e la trasgressione vengo visti con favore e promossi in ogni contesto, dalla scuola, alla politica, ai media.  Ai bimbi si danno nomi neutri e li si veste in modo indefinito perché dovranno essere loro, una volta cresciuti, a “decidere” la propria appartenenza di genere. 

Friedman sottolinea come questa ideologia attinga esiti estremi nella gender theory e nel pensiero di autrici come Judith Butler, che esaltano il nomadismo, l’ibridismo e il meticciato  fra generi e culture, sostenendo la tesi che le identità dovrebbero divenire oggetto di libere scelte individuali, sempre reversibili. I nuovi eroi di questa cultura sono i trans (termine da intendere in senso lato, non  solo sessuale) e i migranti (avendo ovviamente presenti quelli che operano scelte volontarie, piuttosto che quelli spinti dalla fame, dalle guerre e dalla disperazione). Friedman ha però il merito, di andare più a fondo di Furedi nel rintracciare le radici filosofiche di un fenomeno che associa giustamente alla svolta linguistica delle scienze sociali, trainata da teorie postcolonial, gender e cultural studies e da altre discipline accademiche “cool”. Una svolta cui si è sommato l’enorme prestigio acquisito – a partire dagli anni Settanta - da autori come Michel Foucault e Gilles Deleuze, che hanno ipertrofizzato il ruolo del discorso, delle narrazioni, indicati come i fattori determinanti della dinamica del potere e della sua distribuzione sociale. È grazie a questa svolta maturata in ambito accademico se la grande maggioranza di coloro che escono oggi dalle università, e si professano progressisti, sono convinti che non esistano fenomeni sociali oggettivi, dotati di realtà autonoma, ma solo regimi di verità generati dal linguaggio.  La teoria degli atti linguistici - vedi l’uso che ne fa Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna (11) -  diventa la bibbia delle scienze sociali, al punto che l’atto del denotare viene concepito come qualcosa che crea la realtà piuttosto che rappresentarla. Questa convinzione spiega l’orrore che intere generazioni di giovani intellettuali e militanti provano nei confronti del sostanzialismo del pensiero novecentesco, della sua fede nell’esistenza di categorie e identità reali e oggettive, un pensiero cui addebita la responsabilità di inchiodare gli individui a identità predefinite (12). 


J- F Lyotard



Il politicamente corretto: un’ideologia violenta e autoritaria 

Furedi sottolinea un paradosso: i crociati della guerra contro i confini simbolici cadono vittime del fatto che gli esseri umani non possono letteralmente vivere – vedi sopra – senza tracciare confini, perciò, mentre invitano alla trasgressione dei vecchi confini, si erigono a inflessibili sentinelle dei nuovi confini che loro stessi erigono a getto continuo,  cioè di quei confini identitari che spesso appaiono più divisivi (e non di rado più violenti) di quelli tradizionali. È in ragione di tale paradosso che il linguaggio viene costretto a forza (anche a costo di cadere nel ridicolo) nella gabbia del politicamente corretto, per impedire che circolino parole che possano minacciare la “sicurezza emotiva” delle persone; così, dopo avere lottato contro la censura imposta dai vecchi pregiudizi, si invocano leggi e codici comportamentali di una nuova censura che dovrebbe proteggere i soggetti “fragili” dall’esposizione a idee che li possano mettere a disagio; così si afferma il principio in base al quale solo le donne (i neri, i trans ecc.) dovrebbero/potrebbero parlare/scrivere su argomenti che li riguardano, o interpretare personaggi femminili (di colore, queer, ecc.).  

Per parte sua Friedman evidenza come queste tendenze culturali abbiano precise implicazioni morali.  Tale conseguenza nasce dalla convinzione secondo cui l’atto di definire/denotare persone, culture, fenomeni, comunità, popolazioni, ecc. comporta “costruirne” l’identità e definire a priori ciò che questi soggetti – individuali e collettivi - possono/devono fare.  Si presume cioè che sia il linguaggio a monopolizzare il potere di istituire le gerarchie sociali, per cui chi vuole ribellarsi  a tali gerarchie dovrà a sua volta utilizzare il linguaggio come strumento “contro egemonico” (13). È qui che il politicamente corretto rivela la sua essenza di arma di una guerra morale: il catalogo delle parole “proibite” in quanto “pericolose” si arricchisce a ritmo esponenziale, esponendo chiunque che ne faccia uso ad accuse infamanti (razzista, fascista, sessuofobo, omofobo, ecc.). 

A mano a mano che l’etica del politicamente corretto si diffonde e viene adottata da intellettuali, media, élite politiche ed economiche, uomini e donne di spettacolo, ecc. queste accuse non hanno nemmeno più bisogno di essere provate, pretendono di asserire verità evidenti e assolute (e a chi viene giudicato colpevole non viene neanche concesso di difendersi). Paradossalmente, nota Friedman, questi giudizi morali cadono a loro volta nel peccato di essenzialismo che i nuovi giudici rimproverano alle categorizzazioni novecentesche: se ieri i militanti di sinistra bollavano come piccolo borghesi gli appartenenti alla classe media, oggi se sei maschio, bianco, di mezza età ed eterosessuale viene dato per scontato che tu sia razzista, sessista, omofobo, in base a una logica associazionista che si fonda su un repertorio predefinito di falsi sillogismi. 

Nel mettere in luce la logica oggettivamente violenta, autoritaria di questa cultura, i cui esponenti si considerano legittimati dalla propria presunta superiorità morale, Friedman chiama in causa Orwell; a me vengono in mente altri due autori: Isabelle Noelle Neumann (14), la sociologa tedesca che ha coniato il concetto di “spirale del silenzio”, con il quale allude al fatto che generalmente le persone tendono a esprimersi in modo conforme alle opinioni della maggioranza per paura di subire sanzioni morali, e Max Weber, la cui definizione del concetto di potere (15) è simile a quella che Friedman usa per descrivere il modo in cui ci si adatta alle opinioni “corrette”, che consiste nell’introiettare i giudizi morali altrui come se fossero propri. 

I nuovi confini simbolici, nella misura in cui svolgono la funzione di discriminanti morali e politiche, non si sottraggono al paradigma schmittiano (16): servono, cioè, a tracciare il confine amico/nemico. Friedman descrive così il modo in cui le sinistre “progressiste” stanno riconfigurando l’immagine del nemico: 1) bollano qualsiasi espressione di amor patrio come fascismo, al punto che perfino gli atteggiamenti positivi nei confronti della propria identità culturale vengono percepiti come negazione della ineluttabilità di un futuro cosmopolita, quindi sostanzialmente reazionari (in base a tale criterio, commenta Friedman, anche Levi Strauss, il quale scriveva che le culture, ognuna delle quali collegata a un proprio stile di vita e sistema di valori, enfatizzano le proprie peculiarità, e questa è una tendenza sana, non patologica, come vorrebbero farci credere, rischierebbe oggi di essere accusato di fascismo). 2) Irritate dal risentimento dei proletari nei confronti delle élite liberal-progressiste li insultano come retrivi, conservatori, reazionari, un atteggiamento carico di odio e disprezzo che ha toccato vertici imbarazzanti dopo la vittoria elettorale di Trump negli Stati Uniti e l’esito del referendum inglese sulla Brexit. 


George Orwell



Per concludere

Mi sono fatto prestare da due autori che comunisti non sono alcuni (non tutti) degli argomenti di fondo per cui – come ho scritto nell’ultimo articolo che ho pubblicato su questa pagina –, mentre mi professo orgogliosamente comunista, rifiuto la definizione di uomo di sinistra. E visto che i comunisti non hanno bisogno, al contrario dei liberal progressisti, di esibire certificati di presunta superiorità morale, per tracciare un confine che li distingua dai propri avversai politici, non ho difficoltà a dichiarare che nel campo degli avversari non colloco solo i nemici assoluti come fascisti, conservatori e liberali ma anche questa sinistra che inalbera la bandiera del politicamente corretto. Sulla fatuità degli argomenti che il pensiero “fluidificante” mobilita contro i confini simbolici di ogni tipo (meno quelli che lui stesso si inventa) si è detto abbastanza. Per concludere ricorrerò invece di nuovo a Furedi e Friedman per contestare l’ideologia no border che rifiuta di riconoscere i confini fra nazioni. 

Scrive Furedi: i confini contano perché l’esercizio della democrazia è impossibile senza di essi, perché solo lo stato nazione garantisce solidarietà e fiducia, mentre deterritorializzare significa ridurre le persone a individui astratti incapaci, di dare senso a diritti e doveri. I confini sono un’invenzione? Certamente, ma non un’invenzione casuale e arbitraria, bensì il prodotto della storia di una determinata comunità, e se è vero che nascere in un certo luogo piuttosto che in un altro non è una scelta ma frutto del caso, è altrettanto vero che quel caso conta eccome per definire chi sei o non sei. E aggiunge Friedman: lo stato nazione che ha senso difendere non è il vecchio stato nato dalle rivoluzioni borghesi, ma il progetto politico di un popolo che vuole conquistare il controllo sulle proprie condizioni di esistenza, un progetto storicamente più recente, nato dai rapporti di forza che le classi lavoratrici hanno saputo conquistare nella seconda parte del Novecento. Il cittadino del mondo di cui parla l’utopia cosmopolita è un’astrazione priva di ogni consistenza reale. Cittadini si diviene nella misura in cui si condivide un progetto comune in un determinato territorio, se si appartiene a una comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio. 

Note

(1) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(2) Cfr. J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Meltemi, Milano 2018

(3) Cfr. F. Furedi, I confini contano. Perché l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare frontiere, Meltemi, Milano 2021. 

(4) Cfr. U. Beck, La società cosmopolita, il Mulino,  Bologna 2003.

(5) Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.

(6) Cfr. R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003. 

(7) Cfr. C. Formenti, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013; vedi anche La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016 e  Il socialismo è morto viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019. 

(8) Cfr. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma 1981. 

(9) Concetti non dissimili, ancorché ammantati da un linguaggio paramarxista, troviamo in M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2000, un libro che, non a caso, ha riscosso straordinario successo presso un pubblico americano che ha creduto di riconoscervi, piuttosto che un manifesto rivoluzionario, un’apologia dell’ordine imperiale statunitense. 

(10) Sull’ideologia della personalizzazione della vita politica e della messa in trasparenza dei suoi protagonisti, cfr. R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006.

(11) J-F Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981. Questo libretto, da me tradotto, ha avuto un impatto sproporzionato rispetto alle umili origini (è nato come uno scritto di occasione che fu commissionato a Lyotard dall’amministrazione canadese, per descrivere le tendenze evolutive della società informatizzata). La ragione di tanto successo risiede nel fatto che rispecchiava evidentemente lo spirito del tempo, fornendo argomenti di facile spendibilità ai profeti della società post industriale e post materiale. 

(12) L’attacco alle aspirazioni filosofiche di descrivere la realtà del mondo, inizia assai prima della svolta postmoderna ed è stato sferrato su vari fronti da empiriocriticisti, fenomenologi, esistenzialisti, post strutturalisti e altre scuole, anche interne al marxismo. Una delle poche voci che ha avuto il coraggio di opporsi frontalmente è stata quella di Gyorgy Lukacs (vedi in particolare, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Pgreco, Milano 2012).

(13) Il concetto gramsciano di egemonia è stato ignobilmente stiracchiato da tutte le discipline accademiche che si fregiano del prefisso post.

(14) Cfr. I. Noelle Neumann, La spirale del silenzio. Per una teoria dell’opinion pubblica,  Meltemi, Milano 2017.

(15) Cfr. M- Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Torino 1999-2000.

(16) Cfr. C. Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972. 

 

mercoledì 5 maggio 2021



RIFLESSIONI AUTOBIOGRAFICHE DI UN COMUNISTA 

SENZA (FINORA) PARTITO 



Per cominciare. Qualche notizia autobiografica

La mia vita politica è iniziata nella prima metà degli anni Sessanta quando – poco più che adolescente – mio padre, militante comunista dal 1921, mi inserì in una piccola formazione bordighista di cui era membro. Più tardi, a partire dal 1967, frequentai i primi gruppi maoisti finché, entrato nel mondo del lavoro (come impiegato di una multinazionale americana), mi dedicai soprattutto all’attività sindacale. All’inizio degli anni 70, fui notato dalla FIM, che mi offrì di lavorare a tempo pieno come responsabile provinciale degli impiegati e dei tecnici per la Federazione di Milano. Accettai con la benedizione dei compagni del Gruppo Gramsci (di cui ero stato uno dei promotori), in quanto valutammo che la linea sindacale di quella confederazione fosse più radicale e avanzata di quella della FIOM milanese. Nel 1974 cessai la carriera sindacale per completare gli studi (mi sono laureato in Scienze Politiche nel 1976, all’Università di Padova, con una tesi di laurea sull’impatto delle tecnologie informatiche sull’organizzazione del lavoro che nel 1980 fu pubblicata nella collana degli Opuscoli Marxisti di Feltrinelli, con il titolo Fine del valore d’uso). Nella seconda metà degli anni Settanta, dopo una breve esperienza nei ranghi di Autonomia, mi allontanai progressivamente dalla politica attiva, anche perché il riflusso delle lotte operaie, culminato con la sconfitta del 1980 alla Fiat, mi aveva privato degli unici interlocutori che mi interessassero realmente (ho sempre guardato con diffidenza ai partitini nati dai movimenti studenteschi, e più in generale alla cultura libertaria degli strati sociali che ne formavano la base, forse avvertendo confusamente i primi segnali di quel divorzio fra “critica sociale” e “critica artistica” che Boltanski e Chiapello hanno descritto decenni dopo (1)). Da allora e fino a cinque anni fa non ho più condotto vita politica attiva, limitando il mio impegno alla lotta ideologica e teorica in qualità di giornalista e saggista (negli anni 80 sono stato caporedattore e condirettore del mensile “Alfabeta”, ho pubblicato diversi libri e, dai primi del Duemila, sono diventato ricercatore all’Università di Lecce, dove ho ripreso l’analisi teorica sulle conseguenze economiche, politiche, sociali e culturali della rapida e pervasiva diffusione delle tecnologie digitali). Nelle pagine che seguono cercherò di spiegare perché, dopo essere andato in pensione, ho avvertito l’esigenza di tornare a impegnarmi non solo sul piano culturale; descriverò quale è stato, da allora, il mio percorso politico; infine motiverò la scelta che mi appresto a compiere.


Le tappe di una complicata ricerca di compagni di strada 

A indurmi a cercare un ambito in cui svolgere politica attiva è stata la constatazione che gli effetti della controrivoluzione liberale in termini di degrado della qualità di vita e dei livelli di coscienza civile e politica di miliardi di esseri umani, per tacere dei tassi di violenza, oppressione e sfruttamento cui quasi tutti noi siamo in maggior o minor misura sottoposti, sono ormai divenuti assolutamente intollerabili. Non meno intollerabili appaiono i livelli di degrado morale e culturale di quelle forze politiche che hanno il fegato di definirsi di sinistra. Ho quindi ritenuto che non bastasse più analizzare, indignarsi e inveire, ma fosse necessario partecipare attivamente a uno sforzo collettivo di cambiare le cose. Ciò detto, sono partito dalla convinzione che il punto non è “rifondare la sinistra” (termine che non mi ha mai entusiasmato: se mi chiedono se sono di sinistra rispondo che sono comunista, il che non è la stessa cosa), ma piuttosto lavorare alla dura impresa di rilegittimare un progetto di superamento della società capitalista per instaurare il socialismo. Devo ammettere che mi è parso subito dolorosamente chiaro quanto debole, confusa e dispersa (soprattutto qui in Italia) sia oggi la comunità per cui e con cui vorrei tornare a battermi. Passo ora a descrivere le esperienze che ho fatto dal momento in cui ho cercato di rimettermi in gioco.                

Negli ultimi anni ho partecipato a una serie di progetti politici animati dalla volontà  di lottare contro le politiche neoliberali della Unione Europea. Il primo è stato quello di Eurostop, associazione vicina alla Rete dei Comunisti e ai sindacati di base (USB). Me ne sono allontanato quando quell’organizzazione ha scelto di convergere nel cartello elettorale di Potere al Popolo in vista delle elezioni politiche del 2018. Due le ragioni fondamentali del mio dissenso: 1) partecipare alle elezioni mi parve una scelta prematura, in quanto ritenevo  necessario privilegiare piuttosto il lavoro di radicamento nei territori e nei luoghi di lavoro; 2) ancora meno condividevo la convergenza con soggetti politici che ritenevo omologhi alla fallimentare esperienza delle sinistre “radicali”, riproponendo la logica fallimentare delle famigerate liste “arcobaleno”.

Successivamente ho partecipato a vari tentativi di aggregazione del variegato arcipelago di singoli militanti e microgruppi accomunati: 1) dalla volontà di riaffermare i principi e i valori di un patriottismo costituzionale ispirato alla lettera e allo spirito della Carta del 48; 2) dall’intenzione di caratterizzare in senso socialista l’opposizione alla Ue (lotta per la sovranità nazionale come mezzo per restaurare la sovranità popolare e non come fine in sé, e per un programma politico orientato alla costruzione di un’economia mista capace di garantire piena occupazione e condizioni di vita e di lavoro dignitose per le classi subalterne). 

La  mia scelta di privilegiare il rapporto con quest’area dei sovranismi e dei populismi di sinistra, piuttosto che con i residui delle sinistre “radicali”, era fondata su precisi motivi teorici e ideologici. In primo luogo, dalla convinzione che la lotta di classe - a causa della disgregazione delle classi subalterne causata da un’offensiva liberista che le aveva sconfitte tanto sul piano politico quanto sul piano sindacale, dal tradimento delle sinistre tradizionali convertitesi all’ideologia liberista e dalla distruzione dei loro strumenti organizzativi - avesse assunto la forma ambigua e spuria dei populismi, tanto di destra e di sinistra. Mentre alcune esperienze latinoamericane (che ho conosciuto grazie a una serie di viaggi in quei Paesi (2)), negli Stati Uniti (Sanders) e in Europa (Podemos, Mélenchon, Corbyn) sembravano prospettare la possibilità di sfruttare la marea populista come occasione per innescare una battaglia socialista, anche se, nel contempo, cresceva il rischio che a fungere da contenitori della rabbia sociale fossero piuttosto i populismi di destra (Trump, Marine Le Pen, Salvini, ecc.) sempre più abili nell’appropriarsi demagogicamente di parole d’ordine di sinistra per promuovere una "rivoluzione passiva" (Gramsci). Di qui la necessità di riappropriarsi di slogan e parole d’ordine, un tempo patrimonio delle sinistre rivoluzionarie, “dirottati” dalle destre, e di lavorare alla costruzione di un blocco sociale alternativo fra lavoratori e classi medie impoverite. Questa ipotesi era avvalorata dal fatto che gli strati popolari esprimevano ormai un rifiuto totale delle sinistre, identificate con l’ideologia del politicamente corretto ed impegnate a difendere esclusivamente interessi,  bisogni e  diritti individuali, oltre a quelli delle comunità Lgbt,  di un movimento femminista ormai alleato di fatto al blocco liberal progressista espressione dei ceti medio alti e dei residenti dei centri urbani gentrificati.

Sulla base di questa analisi ho deciso di partecipare, prima al movimento che sembrava in procinto di nascere dopo il lancio del “Manifesto per una sovranità costituzionale” (3), poi, svanita quella possibilità, alla costituzione del gruppo di Rinascita, successivamente confluito con altre componenti nell’associazione Nuova Direzione (cfr. le Tesi approvate in occasione dell’assemblea fondativa nel gennaio 2020 https://www.nuova-direzione.it/le-tesi-di-nuova-direzione ). Un anno più tardi, poco prima che Nuova Direzione celebrasse la sua seconda assemblea nazionale, ho dato le dimissioni dal direttivo assieme all’amico Alessandro Visalli, fino ad allora coordinatore nazionale (la discussione che ne è seguita è consultabile sul sito di Nuova Direzione). Nello scorso mese di febbraio, anticipai i motivi che mi avrebbero di lì a poco dopo indotto ad andarmene, scrivendo un documento sulla fase politica generata dalla crisi pandemica, documento di cui riproduco qui di seguito ampi stralci (con diversi tagli, segnalati da puntini di sospensione fra parentesi, alcuni inserti aggiornativi e qualche correzione di forma).



Perché è nata Nuova Direzione

Il progetto di Nuova Direzione è nato in un clima economico, politico e sociale caratterizzato: 

1) dal protrarsi della crisi economica globale iniziata nel 2008, che ha visto l’Italia penalizzata da processi di deindustrializzazione, ataviche debolezze strutturali, tagli alla spesa pubblica e instabilità politica. Una situazione che ha generato elevati livelli di disoccupazione, con punte da record della disoccupazione giovanile; un aumento dei livelli di disuguaglianza; l’aggravamento dello squilibrio Nord/Sud; il deterioramento dei servizi pubblici, penalizzati da tagli e privatizzazioni; la gentrificazione dei centri urbani con l’acuirsi delle contraddizioni con periferie e semiperiferie; le difficoltà di gestione dei flussi migratori.

2) dalle crescenti contraddizioni con la Ue, aggravate dalle scelte politiche di quelle élite nazionali (di sinistra come di destra) che hanno utilizzato le regole imposte dal processo di integrazione europea come vincolo esterno per giustificare austerità, riforme delle pensioni e del lavoro, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica. Tappe fondamentali di tale processo sono stati l’autonomizzazione della Banca d’Italia dalla politica (con conseguente aggravamento del debito pubblico, provocato dalla necessità di ricorrere alla finanza privata); i continui sforzi per snaturare la Costituzione (riforma dell’articolo V, inserimento del vincolo di pareggio di bilancio, ecc.); la progressiva dismissione degli interventi pubblici in economia. 

3) Il venir meno di una rappresentanza politica e sindacale delle classi lavoratrici e dei settori impoveriti delle classi medie, dovuto alla svolta neoliberista delle forze socialdemocratiche e all’abbandono dell’impegno sui temi sociali da parte di sinistre radicali interessate esclusivamente alla promozione dei diritti civili e individuali.

4) Il trasferimento del consenso elettorale degli strati popolari dalla sinistra a formazioni populiste di destra come la Lega o “di sinistra” come l’M5S (in questo caso ha senso parlare di sinistra solo in ragione della presenza di una quota significativa di ex militanti delusi nelle file del Movimento, certo non per i programmi politici, tanto fumosi quanto moderati) 

In questo contesto, alla fuga degli elettori di sinistra verso l’M5S si è affiancata la diaspora, meno vistosa perché sommersa, di una galassia di piccole formazioni (associazioni, gruppi e micro organizzazioni) convinti della necessità di lottare per la riconquista della sovranità nazionale come mezzo per riattivare le condizioni di possibilità della lotta di classe e della partecipazione democratica, e convinti dell’esigenza di rilanciare principi, valori e programmi di chiara matrice socialista. L’opposizione all’Europa ordoliberale a guida franco-tedesca era dunque considerata condizione indispensabile per la rinascita di un movimento popolare e socialista. (…) Questo fermento era parso trovare un momento di coagulo con il lancio del Manifesto per la sovranità costituzionale, elaborato da compagni provenienti da diverse esperienze che si erano aggregati attorno a Stefano Fassina. Rientrato (come prevedibile) nei ranghi Fassina, una parte di coloro che avevano partecipato a quella esperienza hanno dato vita, nel gennaio 2020, all’associazione Nuova Direzione. 

Le Tesi fondative contenevano: 1) un’analisi dei dispositivi istituzionali, economici e ideologici attraverso i quali l’Unione Europea è riuscita a consegnare ai Paesi del blocco centrale la possibilità di sfruttare la forza lavoro qualificata, e a basso costo, dei Paesi del Sud e dell’Est europei, favorendo il modello neomercantilista tedesco e declassando queste regioni a mercati di sbocco privi di autonomia e risorse competitive; 2) una analisi dell’ideologia liberal liberista, che ne ricostruiva le radici storiche e i percorsi evolutivi, mettendo in luce come le sinistre tradizionali e i “nuovi movimenti” abbiano progressivamente assunto principi, valori e obiettivi politici liberali; 3) un abbozzo di analisi delle trasformazioni che la composizione di classe ha subito nel corso degli ultimi decenni: individualizzazione; frazionamento secondo linee generazionali, etniche e di genere; perdita di capacità organizzativa e contrattuale, ecc. 4) un’analisi del fenomeno populista come forma spuria della lotta di classe in una fase di arretramento generale dei rapporti di forza delle classi subalterne, analisi che, pur mettendo in luce limiti e contraddizioni del fenomeno, affermava la necessità di fare i conti con queste modalità di espressione della rabbia popolare, di “attraversarle” per creare condizioni favorevoli alla formazione di un blocco sociale antagonista; 5) l’indicazione di obiettivi strategici come la lotta per la piena occupazione, il contrasto all’autonomia regionale come leva per ottenere ulteriori privilegi per le regioni ricche, la nazionalizzazione dei servizi di base (scuola, sanità, trasporti), il rafforzamento del welfare, l’abolizione delle riforme che hanno sconciato la Costituzione, la riconfigurazione delle alleanze internazionali, con attenzione prioritaria per i Paesi mediterranei e i Brics. 

Tradurre in azione politica – anche solo sul piano dell’agitazione e della propaganda - queste linee generali si è rivelato impossibile, sia a causa della crisi pandemica, sia a causa dallo scontro interno con un gruppo di compagni che hanno scelto di convergere con il progetto politico del senatore Paragone. La pandemia, tuttavia, non è stata solo un ostacolo “meccanico” allo sviluppo dell’attività politica del gruppo. Il fatto è che essa ha provocato un’accelerazione esponenziale delle contraddizioni economiche, sociali e politiche del sistema, riconfigurando scenari politici e rapporti di forza fra le classi e internazionali. Perciò non mi pare esagerato affermare che le analisi contenute nelle Tesi non richiedono solo aggiornamenti, ma un radicale cambiamento di prospettiva 

Lo scenario internazionale.  

Tanto la vittoria di quattro anni fa quanto la recente sconfitta di Trump sono un sintomo della crisi di egemonia degli Stati Uniti. Il termine è da intendersi in senso gramsciano: crisi di egemonia non significa negare che gli Stati Uniti restino la prima potenza mondiale (…) significa prendere atto della loro incapacità di mantenere il controllo assoluto sul resto del mondo (…). Crisi di egemonia significa inoltre che il potere può essere conservato solo attraverso il puro dominio, ma nemmeno questo è semplice, vista la crisi del processo di globalizzazione. Quest’ultimo è stato il frutto, più che di presunte “leggi” economiche, della volontà americana di dominio imperiale sul mondo unificato dal crollo dell’Urss, ma ha finito per ritorcersi contro chi l’aveva messo in moto, creando le condizioni per la crescita di nuovi competitor economici, politici e militari (Cina e Russia su tutti). I contraccolpi interni di questa eterogenesi dei fini sono stati devastanti; in particolare, l’impoverimento di larghe masse proletarie e di classe media ha generato una rabbia diffusa delle regioni più colpite che hanno votato per Trump in odio alle metropoli gentrificate e alla sinistra clintoniana che le aveva tradite, mentre la sinistra populista di Sanders non ha potuto contrastare l’ascesa di Trump perché intrappolata nel Partito Democratico. Il progetto di Trump condensato nello slogan America First (...) non è riuscito a mantenere le promesse elettorali, perché frenato dalla capacità di interdizione del deep state. Anche il suo tentativo di blandire Putin, per impedirne la convergenza con la Cina, è stato frustrato dalla lobby trasversale neocons. Ma il colpo di grazia è venuto dalla crisi pandemica e dalla linea negazionisti dell’amministrazione, pagata con centinaia di migliaia di vittime e con il tragico peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. Non meno pesanti gli effetti della nuova ondata di conflitti razziali, che ha visto Trump difendere le violenze dei poliziotti fascisti. La somma di queste difficoltà ha fatto sì che il blocco sociale che lo aveva premiato quattro anni fa si sfaldasse: in parte è rientrato nell’ovile democratico, lasciandosi convincere dagli argomenti della sinistra di Sanders, mentre gli è rimasta fedele una base socialmente e culturalmente eterogenea che ha mostrato il suo volto folcloristico nell’assalto a Capitol Hill. Quanto alla neopresidenza Biden, ha già chiaramente mostrato le proprie intenzioni: liquidate le velleità della sinistra interna (…) verrà riaffermato il primato dei settori finanziari e high tech sugli altri settori del capitale nazionale; verrà garantita la continuità  delle politiche economiche democratiche (sia pure con correzioni in senso neokeynesiano), ma soprattutto verrà perseguito con determinazione lo sforzo di mobilitare l’opinione pubblica contro il nemico esterno: la guerra fredda contro Cina, Russia e “stati canaglia” (Corea del Nord, Cuba, Venezuela, ecc.) verrà condotta sotto la bandiera dei diritti civili da esportare, ove necessario, con la forza delle armi. (…).

Questo disegno non è perseguibile se gli Stati Uniti non ottengono il pieno appoggio dei loro tradizionali alleati, a partire dalla Ue. Quest’ultima ha subito gli effetti devastanti della pandemia (aggravati da decenni di austerità, privatizzazioni, tagli alla spesa e ai servizi pubblici): crollo dell’occupazione e della produzione, centinaia di migliaia di vittime, servizi sanitari al collasso. Per fronteggiare l’emergenza è stato necessario compiere una brusca inversione di rotta: allentare significativamente i vincoli di bilancio, erogare enormi quantità di denaro pubblico per impedire che decine di milioni di persone sprofondino in povertà assoluta, rivalutare il ruolo dello Stato come garante in ultima istanza della sicurezza e del benessere popolari (…). In generale è possibile evidenziare significative analogie con lo scenario americano: anche in Europa il blocco sociale populista si è tendenzialmente sfaldato separando gli strati (lavoratori garantiti, pensionati, dipendenti pubblici) che più beneficiano dell’assistenza pubblica da quelli (precari, disoccupati, finti autonomi, impiegati nella gig economy, artigiani, piccoli imprenditori, ecc.) che più soffrono per il lockdown e la perdita di reddito. Di conseguenza, anche in Europa i movimenti populisti e sovranisti di destra e di sinistra hanno subito un secco ridimensionamento: quelli di destra sono rifluiti nel blocco liberale dominante o sono stati marginalizzati. Quanto ai populisti di sinistra, la loro parabola discendente era già iniziata prima della pandemia, a mano a mano che sceglievano di allearsi con i tradizionali partiti di centro sinistra per “difendere la democrazia” dalla minaccia dei populismi di destra. Avendo perso anche questi “contenitori dell’ira” e trovandosi nella quasi impossibilità di esprimersi pubblicamente a causa dello stato di emergenza sanitario, la rabbia degli strati più marginalizzati si manifesta con scoppi episodici e ideologicamente caricaturali (complottisti, no Vax, ecc.) non troppo dissimili dalla variopinta umanità che ha dato l’assalto a Capitol Hill. Il consolidamento dei tradizionali equilibri istituzionali (consolidamento che in Italia ha assunto la forma del golpe bianco di Draghi) non risolve tuttavia le contraddizioni scatenate dalla crisi pandemica: l’Europa – soprattutto dopo avere perso la “costola” inglese – non può permettersi, pena un drastico ridimensionamento del suo spazio e del suo ruolo geopolitici, di rientrare disciplinatamente sotto l’ombrello protettivo degli Stati Uniti, anche perché questi ultimi ne richiedono la partecipazione attiva alla guerra fredda antirussa e anticinese, il che comporta gravi conseguenze in termini di scambi commerciali e investimenti (questa mia previsione è stata parzialmente smentita, nel senso che, almeno finora, la Ue si è rivelata più disponibile di quanto prevedessi ad allinearsi alla politica provocatoria degli Usa nei confronti di Cina e Russia). 

A questa schematica rappresentazione dello scenario mondiale (…) manca ovviamente una sezione sulla Cina, che richiederebbe un’analisi approfondita sulla natura del sistema socioeconomico cinese e sul modo peculiare in cui la cultura millenaria di quel Paese si è intrecciata con il marxismo, nonché sulle prospettive del suo scontro geopolitico con l’Occidente (...) Qui mi limito ad affermare che, qualsiasi sia il giudizio sulla natura del sistema cinese, è demenziale descrivere il conflitto cino-americano come uno scontro simmetrico fra imperialismi: 1) perché l’aggressore è l’America; 2) perché il tipo di investimenti occidentali nei Paesi in via di sviluppo (predatori) è completamente diverso da quello degli investimenti cinesi (strutturali, a condizioni favorevoli, non vincolati all’orientamento politico dei beneficiari e finalizzato al loro sviluppo reale); 3) perché la crescita della Cina, dacché ha abbandonato il modello mercantilista per scommettere sullo sviluppo del mercato interno, è divenuta un fattore in grado di accelerare la crisi capitalistica globale.  


Lo scenario nazionale

Tralascio tutta la prima parte di questa sezione del documento, nella quale ricostruivo alcuni passaggi storici: dal boom economico del dopoguerra, reso possibile da un’economia mista che ha potuto contare sulle performance della grande industria di Stato, alla crisi del compromesso fordista fra capitale e lavoro, causata dal ciclo di lotte operaie che ha eroso i margini di profitto delle imprese e dalla crisi petrolifera, alla controffensiva liberista degli anni Ottanta, con i vari Carli, Ciampi, Andreatta, Prodi protagonisti della autonomizzazione della Banca d’Italia dalla politica, delle privatizzazioni e delle “riforme” antipopolari legate all’adesione al trattato di Maastricht e all’ingresso nell’area euro. Dopo avere descritto i devastanti effetti economici, politici e ideologici di questa controrivoluzione passavo all’analisi delle trasformazioni della  composizione di classe e delle forme della rappresentanza politica, scrivendo: 

abbiamo assistito all’indebolimento numerico di una classe operaia sempre più frammentata, individualizzata e dispersa, a fronte dell’aumento ipertrofico di una classe media impegnata in una galassia di attività rifugio in assenza di concrete opportunità di occupazione e carriera (piccolo commercio, artigianato, microimprese per gli strati a bassa scolarizzazione; partite iva, consulenze, professioni “creative”, ecc. per gli strati più acculturati). Nel contempo Tangentopoli sanciva la morte dei partiti tradizionali, travolti dalla corruzione e dalla scelta di recidere i legami con le loro tradizionali basi sociali. Infine Berlusconi ha inaugurato la stagione dei partiti personali, fondati sulla mobilitazione di una massa composita di individui sensibili alla comunicazione mediatica più che ai programmi politici. Non sono mancati movimenti spontanei di rivolta, i quali tuttavia rispecchiavano a loro volta questo marasma sociale, culturale e politico: esperienze interessanti ma territorialmente circoscritte, come le lotte in Val di Susa; il “cittadinismo” dei vari girotondi alimentati dalla piccola e media borghesia urbana e privi di velleità antisistema (via i corrotti, potere agli onesti); le esplosioni episodiche di furia plebea come il movimento dei forconi (meno strutturati e dotati di consapevolezza politica rispetto a fenomeni come il 15M spagnolo o i gilet gialli francesi). Finché non è apparso sulla scena politica l’M5S, un fenomeno che tocca da vicino le ragioni della nascita di Nuova Direzione e delle scelte di fronte alle quali oggi ci troviamo.

Il secondo decennio del Duemila ha visto l’Italia assumere per la seconda volta – dopo gli anni del partito azienda di Berlusconi – il ruolo di laboratorio sperimentale di nuove forme di aggregazione politica nell’era del tramonto della democrazia liberale. Nel periodo fra il governo Monti e l’incarico che Mattarella ha affidato a Draghi mentre scrivo queste pagine (due momenti in cui l’alta finanza internazionale ha assunto in prima persona il governo del Paese, commissariandone il sistema politico e sospendendo qualsiasi finzione di democrazia, due golpe bianchi che hanno confermato la validità del detto di Carl Schmitt “sovrano è chi decide dello stato di eccezione”) abbiamo assistito all’ascesa, culminata con le elezioni del 2018 e la nascita del primo governo Conti, e alla fulminea caduta, coincisa con la fine del secondo governo Conti,  di un momento populista (4) bicefalo. Da un lato la Lega di Matteo Salvini, il leader che è riuscito a dare dimensione nazionale a un partito nato per rappresentare gli interessi della piccola e media impresa settentrionale e più in generale dei settori di borghesia più penalizzati dal processo di globalizzazione; un partito “sovranista” a parole ma privo di qualsiasi reale volontà di sganciare l’Italia da Bruxelles (anche perché la sua base sociale è legata a triplo filo alle catene di subfornitura delle grandi imprese tedesche). Dall’altra quello strano ircocervo che è il Movimento 5Stelle. Un fenomeno nato come “contenitore dell’ira” popolare che si è coagulata attorno alla leadership del comico Beppe Grillo, il quale è riuscito a “dare voce” alla frustrazione di un’ampia gamma di strati sociali inferociti dagli effetti di decenni di “guerra di classe dall’alto”( 5). Alla fase pionieristica dei Meetup (una rete di collettivi locali egemonizzati, dal punto di vista socioculturale, da esponenti delle nuove professioni emergenti e dalla diaspora dei delusi delle sinistre tradizionali), caratterizzata dall’esaltazione della democrazia digitale (orizzontalismo, uno vale uno, ecc.), e dal rifiuto intransigente del professionismo politico, si è passati alla fase governista: incoraggiato dai successi ottenuti dai clamorosi successi nelle elezioni amministrative di alcune grandi città, il movimento ha tentato l’assalto al cielo del governo nazionale. Nel frattempo era venuto aggregando un consenso sociale più ampio e trasversale rispetto alle origini (le analisi dei flussi elettorali ne hanno evidenziato il forte seguito fra gli strati operai e impiegatizi, fra le nuove forme di lavoro precario e finto autonomo, e fra le classi medie “riflessive”, con provenienze sia dall’elettorato di sinistra che di destra, ma con netta prevalenza del primo). Dal punto di vista programmatico l’M5S è parso un’incarnazione da manuale delle tesi del massimo teorico del populismo, Ernesto Laclau (6): un aggregatore di rivendicazioni diverse, provenienti da settori sociali eterogenei, nei confronti di un sistema incapace di dare risposte. In poche parole, quello che Laclau definisce una “catena equivalenziale”, alla quale è mancata, tuttavia, la capacità di selezionare le domande egemoniche attorno a cui coagulare il tutto, visto che l’unico vero collante è stato la critica alla “casta” politica e l’unico vero “programma” quello di rimpiazzare una classe dirigente inetta e corrotta con figure oneste e selezionate da meccanismi di democrazia di base. Nessuna velleità antagonista nei confronti del sistema capitalistico, nessuna indicazione concreta su fini e mezzi in tema di lotta alla disuguaglianza, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, riequilibrio fra Nord e Sud, riforme dello Stato, se non discorsi generici e velleitari e qualche provvedimento assistenziale ad hoc. Con queste premesse era chiaro che la conquista del potere si sarebbe trasformata in una nemesi per un soggetto politico palesemente incapace di gestirlo. Già la caduta del primo governo Conte e il successivo abbraccio con il PD – forza dotata di ben altra esperienza e capacità di manovra e con idee chiarissime sugli interessi da difendere – lasciava intuire la rapidità con cui il movimento sarebbe andato incontro alla normalizzazione. Incalzato dai poteri forti, decisi a usare la crisi come occasione di affossamento di qualsiasi capacità di resistenza – ancorché debole e moderata – ai propri obiettivi, si è letteralmente dissolto, riducendosi a stampella esterna dei Dem.


Perché oggi serve qualcosa di più di Nuova Direzione

Il fatto è che, fin dall’inizio, anche se non ce lo siamo mai chiariti del tutto, la ragione di fondo per costituirci in gruppo politico, e non semplicemente in associazione politico culturale, non era tanto la speranza di riuscire ad aggregare le varie componenti della sinistra “sovranista” (il che non garantirebbe comunque il raggiungimento di una “massa critica” sufficiente a consentire un radicamento sui territori e una reale capacità di intervento politico) ma l’aspettativa che la prevedibile crisi dell’M5S potesse tradursi in una “liberazione” dello spazio politico che il Movimento aveva occupato, sottraendolo alla sinistra. In assenza di tale eventualità, e date le nostre ridottissime dimensioni organizzative, ogni velleità di svolgere una “vera” attività politica appariva illusoria. Alcuni compagni, non condividendo questa realistica presa d’atto dei nostri limiti, hanno creduto di riconoscere nel costituendo partito di Paragone, una opportunità di andare a occupare lo spazio politico liberato dalla crisi dell’M5S. La maggioranza si è opposta a quella ipotesi perché riteneva che quella di Paragone rappresentasse inequivocabilmente una micro scissione da destra rispetto all’M5S: antisocialista, filo occidentale e coerentemente “sovranista” nel senso del primo Salvini, quindi incompatibile con i paletti fissati dalle Tesi fondative. (…) Da alcune recenti discussioni avvenute al nostro interno a proposito della necessità di rafforzare e implementare la nostra struttura organizzativa e la nostra capacità di intervento, ho la sensazione che il problema si stia ripresentando in forma abbastanza simile. Non ho alcuna obiezione se i compagni avvertono l’esigenza di svolgere attività politica attiva, ma quello che vi chiedo è: ND è realmente in grado di impegnarsi in tal senso, ma soprattutto perché e con quali prospettive dovrebbe farlo in un contesto come quello che ho fin qui delineato? Per rispondere positivamente occorrerebbe essere convinti 1) che l’ipotesi di poter sfruttare - non dico egemonizzare - lo spazio “liberato” dalla crisi dell’M5S sia ancora praticabile; 2) che sia ancora realistica l’idea di “attraversare” – non il momento populista in generale, destinato a mio parere a durare a lungo, ancorché in forme diverse – bensì “questo” populismo, così come si è concretamente evoluto nel nostro Paese, per “estrarne” un potenziale antisistemico. Le mie risposte sono due secchi no. 

Ecco le ragioni del primo no: gli spazi politici non sono fogli bianchi che si possano riempire immediatamente dopo avere cancellato quanto vi era scritto sopra. Se l’M5S ha potuto occupare in tempi relativamente rapidi il vuoto lasciato dalle sinistre è stato solo perché quel vuoto non si è aperto di colpo, ma è stato l’esito di un lento, decennale processo di degrado di una cultura politica che era riuscita a sopravvivere a lungo solo grazie all’inerzia di fedeltà costruite sulla memoria storica di decine di generazioni. La memoria e la fedeltà sedimentate dall’M5S sono roba di qualche mese, se non di giorni (è l’altra faccia del populismo: quel che si ottiene rapidamente sparisce altrettanto rapidamente). Quello spazio è stato riempito “per disperazione”, per mancanza di alternative e ora che i disperati che ci hanno creduto avranno conferma che, per dirla con la Tatcher, There is no alternative, resterà vuoto a tempo indeterminato (vedi la catastrofe del dopo Tsipras in Grecia). Ergo: l’idea di navigare fra i rottami dell'M5S per pescare un numero sufficiente di naufraghi da arruolare è illusoria. 

Le ragioni del secondo no sono più complesse. Negli ultimi anni ho sostenuto (7) che il populismo è la forma che la lotta di classe assume in questa epoca di disarticolazione delle classi subalterne. Ho anche sostenuto che una forza socialcomunista dovrebbe essere parte attiva dei movimenti populisti con caratteristiche progressive (o di sinistra, volendo usare questa connotazione, ormai sempre meno caratterizzante) per agire come catalizzatore di un processo di aggregazione di un blocco sociale egemonizzato dalle classi subalterne. Ma se ho ragione nell’affermare che quei movimenti populisti hanno subito un rapido processo di normalizzazione, e/o si sono disgregati secondo i confini che separano diversi strati di classe, allora il compito prioritario non è oggi la costruzione di un blocco sociale inteso come alleanza fra classi lavoratrici e classi medie, bensì - come ho scritto nel mio ultimo libro (8) la ri-costruzione dell’unità delle classi lavoratrici frammentate dall’offensiva liberal-liberista. Il primo obiettivo potrebbe essere perseguito – a condizione che esistano condizioni che oggi in Italia a mio parere non si danno -  attraverso abili strategie di comunicazione, elaborate da un piccolo nucleo dotato di competenze culturali e teoriche in grado di dare vita a nuove correnti di opinione pubblica (è il modello” ispirato dalle teorie di Laclau, dalla rivoluzione “cittadinista” di Correa in Ecuador, e dall’esperienza spagnola di Podemos). Il secondo richiede invece la volontà di compiere un paziente, faticoso e capillare lavoro di penetrazione nei luoghi di lavoro, nelle scuole, sui territori, ecc. e mi pare evidente che ND non è attrezzata per questo. (…) Penso quindi che in questo momento svolgeremmo un ruolo più utile come associazione politico culturale (penso all’esempio di Marx 21) piuttosto che come uno dei tanti micro gruppi che nutrono la velleità di agire come nucleo fondativo di un nuovo movimento, se non addirittura di un nuovo partito. 

Tralascio le ultime righe del documento, di scarso interesse per chi non sia direttamente implicato nell’esperienza di Nuova Direzione. Mi limito a riferire che il dibattito (torno a ricordare che chi fosse interessato può trovarne traccia nel sito dell’associazione) è proseguito in serenità ma senza sciogliere i nodi da me posti, per cui ho reiterato le mie dimissioni dal direttivo e mi sono di fatto allontanato dall’associazione. Dopodiché gli amici di Nuova Direzione hanno celebrato la loro seconda assemblea nazionale, eletto un nuovo direttivo e proseguono la loro attività. Aggiungo solo che mi par di capire che, pur condividendo alcuni dei punti sollevati dal sottoscritto e da Alessandro Visalli, ritengono che l’impianto delle Tesi non necessiti di sostanziali stravolgimenti, malgrado i radicali mutamenti avvenuti nel corso dell’ultimo anno. In particolare, mantengono come prospettiva strategica la lotta al bipolarismo (anche se il governo Draghi sta creando le condizioni per la sua liquidazione, perlomeno nelle forme classiche) e la costruzione di un non meglio definito ”terzo polo” (già in occasione dell’assemblea fondativa mi ero inutilmente opposto a questa formulazione, che ritengo politicamente ambigua e inconcludente) che - in concreto – può basarsi solo sulla speranza che i detriti “dell’ala sinistra” di un M5S che attraversa una drammatica crisi d’identità si ricompattino in un progetto “alternativo” (ammesso e non concesso che ciò possa avvenire, si tratterebbe dell’ennesima versione del velleitarismo politico di quelle “classi medie riflessive” costitutivamente incapaci di assumere una posizione chiaramente anti sistemica).



Torno ora a ragionare “in tempo reale”. Chiusa l'esperienza di Nuova Direzione, mi sono chiesto se esistesse una offerta politica in grado di rispondere alle esigenze che avanzavo nel documento di cui ho appena riproposto ampie parti. Per un marxista la teoria non è mai esercizio fine a se stesso, ma analisi concreta della situazione concreta, strumento per l’azione. Nel caso in questione, ciò vuol dire che, se è vero che l’obiettivo non può più essere quello di costruire un inedito blocco sociale, cavalcando un momento populista che oggi appare in avanzata fase di esaurimento, bensì quello di mettersi pazientemente al lavoro per ricostruire una unità di classe che decenni di neoliberalismo hanno distrutto (passando, per riproporre la metafora gramsciana, dalla guerra di movimento alla guerra di posizione), allora è evidente che la prima cosa da verificare è se esista oggi in Italia una forza di chiara matrice comunista che cerchi di affrontare tale obiettivo. A questo punto, cerco di elencare quali sono, a mio parere, i requisiti minimi che una forza del genere dovrebbe soddisfare.

1) Viviamo in un contesto storico in cui “essere di sinistra” è divenuto sinonimo: a) di linguaggio politicamente corretto; b) di impegno a rincorrere tutti i bisogni, i desideri e le rivendicazioni di “riconoscimento” identitario da parte di individui e minoranze (spesso alimentati da un perverso intreccio fra tecnologia e mercato),  a prescindere dalla loro compatibilità con gli interessi comunitari e il bene comune, o dai possibili danni collaterali a carico dell’integrità fisica e morale di altri soggetti (vedi  la rivendicazione di sancire la mercificazione del corpo femminile legalizzando l’ignobile pratica dell’utero in affitto; c) di apologia della trasgressione nei confronti di ogni confine etico e simbolico, associata alla delegittimazione di ogni critica nei confronti di tale atteggiamento, automaticamente bollata come “transfobia” (per inciso il significato stesso della parola trasgressione, tanto cara ai reduci del 68 e ai loro emuli, appare svuotato di senso nella misura in cui trattasi di trasgressione senza oggetto, visto che il licitazionismo è ormai l’ideologia ufficiale della società in cui viviamo); d) di incondizionata approvazione dei dogmi economici liberisti e dei dogmi politici liberali, associata al culto dei “diritti universali dell’uomo” (ignorando la feroce critica che Marx fece di questo concetto astratto, dietro al quale si nascondono i concretissimi diritti dell’uomo proprietario) e della “società aperta” di popperiana memoria, principi in nome dei quali si giustificano sia l’aggressione sistematica contro i Paesi socialisti, o comunque restii ad accettare l’egemonia occidentale, sia l’instaurazione di un clima neo maccartista del quale l’ignobile equiparazione fra nazismo e socialismo da parte del parlamento europeo è la massima espressione (che prelude al progetto di metter fuori legge i comunisti). Considerati questi e altri significati assunti dalla parola sinistra, mi aspetto che la forza politica di cui sopra NON si dichiari di sinistra bensì si professi chiaramente e orgogliosamente comunista.     

2) Dato che dichiararsi comunisti non basta (persino Antonio Negri e “il Manifesto” inalberano abusivamente questa etichetta, mentre tutto ciò che dicono e scrivono li classifica impietosamente del campo delle “sinistre progressiste”, cioè liberali), mi aspetto che la forza in questione legittimi questa autodefinizione con  un impegno coerente e constante nel lavoro di ricostruzione dell’unità del proletariato distrutta da decenni di guerra di classe dall’alto. Questo sapendo che parte di tale impegno consiste precisamente nel lavoro teorico di ridefinizione della classe in sé nel complesso scenario creato dalle trasformazioni del modo di produrre (definire la classe in sé è condizione preliminare per costruire la classe per sé, la soggettività politica antagonista). Un lavoro teorico che sappia liberarsi dalle concezioni dogmatiche, riconoscendo le forme nuove che l’oppressione e lo sfruttamento capitalistici  hanno assunto, generando inedite articolazioni del proprio potenziale nemico (vedi, ad esempio, il contributo di Linera (9) all’analisi della natura di classe delle comunità andine,  o quello di Harvey (10) che invita a riconoscere l’appartenenza alla classe operaia dei lavoratori dei settori terziarizzati (nuovi servizi alle imprese e alla persona, gig economy, logistica, ecc.). Un lavoro pratico e teorico da integrare reciprocamente in funzione della costruzione del nuovo partito di classe.  

3) Mi aspetto inoltre che la forza in questione si differenzi dalle sinistre liberali e presunte “radicali” anche contestandone l’ideologia antistatalista e antipolitica che è stata e continua ad essere un tratto distintivo della cultura e dei movimenti post sessantottini. A prescindere da quanto si possa pensare in merito al fatto se l’utopia marxiana sull’estinzione dello stato conservi o meno la sua validità e il suo significato, dovrebbe essere chiaro che l’idea secondo cui lo sviluppo delle forze produttive avrebbe oggi raggiunto un livello tale da consentire il passaggio diretto al comunismo (magari senza passare, come teorizzano i post operaisti, dalla conquista del potere politico) non è solo sbagliata, è letteralmente reazionaria. Questa idea rimuove infatti il fatto che lo stato non è solo lo strumento delle classi dominanti, è anche il terreno dello scontro fra gli interessi e le idee di tutte le classi sociali, terreno che, dati certi rapporti di forza, può anche rispecchiare le aspirazioni delle classi subalterne. Ignorarlo significa sminuire le conquiste che decenni di lotte operaie hanno strappato non solo sul piano economico e sindacale ma anche sul piano delle conquiste democratiche. È quindi demenziale rinunciare alla lotta per il potere politico (considerandolo come una sorta di incarnazione del male) e sognare di poter cambiare il mondo “a partire da sé”, attraverso pratiche di autoemancipazione individuale o di microcomunità, una mentalità tipica dei nuovi movimenti sociali (femminismo, pacifismo, no global, ecc.) che hanno preso il posto delle formazioni extraparlamentari degli anni Settanta. La presa del potere politico resta l’obiettivo irrinunciabile di qualsiasi forza che si definisca comunista, e ciò a prescindere dal dibattito sulle forme con cui tale obiettivo possa o debba essere perseguito.

4) Mi aspetto che si batta con decisione contro il cosmopolitismo borghese che è divenuto la cifra del progressismo di sinistra. L’internazionalismo proletario non ha nulla a che fare (e Lenin lo aveva ben chiaro, come dimostra il suo decisivo contributo al dibattito sulla questione nazionale) con l’ideologia no border. Internazionalismo è il rapporto di solidarietà fra proletari e popoli oppressi e sfruttati nella comune lotta contro l’imperialismo. E la sovranità popolare, al pari della democrazia – sempre che con il termine non ci si limiti a indicare le procedure della democrazia rappresentativa -, non possono prescindere dalla sovranità nazionale, nella misura in cui nessun popolo cui sia stata sottratta la propria sovranità è in grado di decidere liberamente del proprio futuro. Il che conduce immediatamente alla necessità di assumere una chiara e inequivocabile posizione contro questa Europa. La Unione Europea è nata infatti con il preciso obiettivo, chiaramente formulato dal nume tutelare del liberal liberismo von Hayek, di distruggere i rapporti di forza e la capacità di lotta dei proletari delle singole nazioni aderenti. La sua costituzione materiale, di chiara impronta ordoliberale, è il fondamento del rapporto di sudditanza che la Germania è riuscita ad instaurare nei confronti delle nazioni del Sud e dell’Est Europa, trasformandole in altrettanti fornitori di forza lavoro qualificata a basso costo, in mercati di sbocco dei suoi prodotti, e privandole di risorse tali da poterle trasformare in concorrenti. In  poche parole, la Ue non può essere riformata ma dev’essere distrutta, per costruire sulle sue ceneri un’Europa basta sulla collaborazione pacifica e paritaria fra popoli. 

5) come corollario di quanto appena affermato, mi aspetto che, di fronte a una situazione mondiale che vede crescere i venti di guerra, con gli Stati Uniti incapaci di gestire il proprio declino egemonico e di accettare un mondo multipolare e impegnati a costruire una “santa alleanza” contro Cina e Russia e contro tutti i Paesi che non accettano i diktat occidentali, assuma una coerente e dura posizione antimperialista. Nessuna aggressione imperialista – ipocritamente motivata con la difesa dei diritti umani da parte di potenze che quei diritti hanno sempre calpestato – contro qualsiasi Paese può essere tollerata. Questo vale per la Russia, l’Iran, la Siria che socialisti non sono, ma vale a maggior ragione per i Paesi socialisti come Cuba, il Vietnam, la Bolivia, il Venezuela e – soprattutto – come la Cina. Nelle sinistre liberal progressiste circola la delirante posizione secondo cui lo scontro fra Usa e Cina sarebbe uno scontro fra opposti imperialismi, in quanto la Cina è un Paese autoritario e capitalista di stato, qual era l’Urss, se non esplicitamente capitalista. Posto che io ritengo, come ho argomentato in varie occasioni (11) che la Cina sia un Paese socialista sulla cui natura sarebbe necessario aprire – come hanno fatto gli amici di Marx 21 – un approfondito dibattito sulla possibilità di convivenza – sotto precise condizioni politiche – fra socialismo e mercato, resta il dato di fatto che la relazione fra Usa e Cina è senza ombra di dubbio quella fra un aggressore e un aggredito per cui è dovere dei comunisti schierarsi con il secondo.  

6) mi aspetto infine che abbia il coraggio di non mettersi in una posizione “codista” nei confronti del movimento femminista. Storicamente il femminismo ha dato un contributo importante all’analisi della funzione del lavoro riproduttivo non retribuito ai fini della conservazione degli equilibri del modo di produzione capitalista, così come ha messo all’ordine del giorno il tema delle contraddizioni di genere come strumento di divisone delle classi lavoratrici. Purtroppo di quel femminismo anticapitalista oggi è rimasto poco. Ne rimangono tracce in America Latina, nel femminismo afroamericano e nei gruppi minoritari che si rifanno alle origini del movimento. Il femminismo mainstream, il femminismo post marxista che egemonizza i movimenti di massa alla MeTo e colonizza il discorso politico e gli spazi mediatici e, in alleanza con la cultura Lgbt, mette al centro dell’agenda politica il riconoscimento di diritti individuali sul tipo di quelli sopra descritti (vedi al punto 1), è oggi parte integrante del blocco politico (ma anche sociale: le sue radici di classe sono inequivocabilmente medioborghesi) dominante e quindi è, di fatto, un avversario della classe lavoratrice.

Arrivo alla conclusione. Guardandomi attorno, mi pare che esista una sola forza politica che risponda ai requisiti appena elencati: il Partito Comunista guidato da Marco Rizzo. Dalla storia personale che vi ho raccontato in precedenza, avrete capito che in vita mia non ho mai messo in tasca la tessera di un partito politico. Non so se lo farò oggi, alle verde età di 73 anni, ma quel che è certo è che ho intenzione di confrontarmi seriamente con questi compagni, sia perché non mi basta più lottare con le mie armi di intellettuale e giornalista, sia perché sono consapevole che qualsiasi lavoro teorico necessita di un contesto collettivo che ne misuri la consistenza. Le sfide che dobbiamo affrontare sono troppo complesse perché ognuno di noi possa affrontarle da solo. Saluti comunisti. 

Note

(1) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(2)  Vedi in particolare l’estate che ho passato in Ecuador nel 2013 che ha inspirato un mio libro uscito l’anno dopo da Jaka Book (Magia bianca magia nera). In precedenza e successivamente sono stato in Argentina, in Messico e a Cuba. 

(3) http://www.patriaecostituzione.it/wp-content/uploads/2019/02/Folder-Manifesto-Sovranita-Costituzionale.pdf 

(4) Per la definizione di momento populista cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008.

(5) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.

(6) Cfr. La ragione…, op. cit., vedi anche Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano-Udine 2017.

(7) Vedi, in particolare, La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016. 

(8) C. Formenti, Il capitale vede rosso. Socialismo del XXI secolo e reazione maccartista, Meltemi, Milano 2020. 

(9) Cfr. A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.

(10) Cfr. D. Harvey, Cronache anticapitaliste, Feltrinelli Milano 2021. 

(11) Cfr. Il capitale vede rosso, op. cit. vedi anche Il socialismo è morto viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019. 

 


        


    

             

venerdì 30 aprile 2021




    IL GRANDE GIOCO DI LENIN 



La distinzione fra marxismo orientale e occidentale, proposta dal filosofo Domenico Losurdo (1), è senza dubbio una delle più efficaci chiavi interpretative per comprendere un ampio ventaglio di fenomeni contemporanei: dal clamoroso successo della via cinese al socialismo al fallimento dei partiti comunisti occidentali, trasformatisi – salvo meritevoli eccezioni – in altrettante varianti “di sinistra” dell’ideologia liberale, che oggi esercita un’egemonia incontrastata sull’intero emisfero occidentale; dal fatto che le uniche rivoluzioni socialiste vittoriose sono avvenute – contro le previsioni di Marx ed Engels - in Paesi industrialmente arretrati e non laddove le forze produttive erano più sviluppate, al fatto che la questione nazionale – della quale quasi il solo Lenin seppe valutare adeguatamente il peso strategico – ha finito per svolgere un ruolo più importante delle lotte del proletariato industriale delle metropoli come fattore di resistenza alle politiche imperialiste. Non intendo tornare qui sull’ampio e complesso dibattito teorico suscitato dalle tesi di Losurdo, cui ho dato a mia volta un sia pur modesto contributo (2). Voglio piuttosto sfruttare le suggestioni inspiratemi dalla lettura di un affascinante libro del giornalista inglese Peter Hopkirk (Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis editore), per mettere in luce come la storia - poco conosciuta - di eventi accaduti in Asia Centrale nei decenni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre, offra una conferma empirica alla validità del punto di vista di Losurdo. 

Attingendo a documenti dei governi inglesi dell’epoca, a vecchi articoli di riviste e giornali, ma soprattutto alle memorie di alcune spie britanniche, di russi bianchi e di ex bolscevichi fuggiti dall’Unione Sovietica, Hopkirk descrive la spietata guerra che, dal 1920 alla metà degli anni Trenta, oppose – perlopiù indirettamente, appoggiando l’una o l’altra delle fazioni ed etnie locali in conflitto reciproco – inglesi e russi su un’area di migliaia di chilometri che si estende dall’Afghanistan alla Mongolia, passando per lo Xinjiang. Rievocando il Grande Gioco, che già aveva opposto la Russia zarista e l’Impero inglese, i quali si contendevano il controllo di quegli stessi territori – immortalato da Rudyard Kipling nel suo famoso romanzo Kim - Hopkirk presenta le storie che racconta come una sorta di Grande Gioco 2.0, tende cioè a descriverle come una “seconda puntata” - sostanzialmente in continuità sul piano geopolitico – con il conflitto precedente. Ciò emerge chiaramente dal sottotitolo “Il sogno di Lenin di un impero in Asia”, che allude esplicitamente a una supposta continuità fra le mire espansioniste degli zar in Asia e quelle del leader della Rivoluzione d’Ottobre. Mire alle quali gli inglesi si opposero con tanta maggiore energia in quanto, a quei tempi, rappresentavano l’avanguardia del fronte capitalista mondiale che tentava di soffocare sul nascere la minaccia bolscevica. 

È il caso si chiarire subito che il punto di vista di Hopkirk è tutt’altro che obiettivo: nella sua narrazione ai russi (o meglio ai bolscevichi, perché con i russi bianchi adotta tutt’altro atteggiamento) spetta la parte dei cattivi e agli inglesi quella dei buoni, senza se e senza ma. Così le imprese dell’agente britannico Frederick Marsham Bailey, maestro di travestimenti e astuto manipolatore di uomini, vengono descritte con lo stesso entusiasmo con cui Ian Fleming ha costruito il mito del suo eroe immaginario, James Bond. Lo stesso dicasi per Percy Thomas Etherton, incaricato di presidiare lo Xinjiang, impedendo qualsiasi cedimento del debole governo cinese alle mire egemoniche dei sovietici, o della spia al servizio dei Bianchi Pavel Nazarov. Sul fronte opposto i bolscevichi vengono viceversa descritti come bande disorganizzate, guidate da comandanti tanto feroci quanto sprovveduti, i quali, in assenza dell’appoggio della lontanissima Mosca, riescono a stento a controllare la resistenza delle tribù musulmane centroasiatiche che li considerano invasori al pari degli zaristi (Hopkirk insiste sull’atteggiamento neocoloniale dei bolscevichi, sostenendo che le spie britanniche potevano contare sul risentimento delle popolazioni autoctone nei loro confronti). Che poi gli eserciti dei “resistenti” – siano essi locali o russi bianchi – alleati degli inglesi si rivelassero ben più feroci dei bolscevichi è un dettaglio che non turba Hopkirk: lo ammette senza reticenze, ma lascia al tempo stesso capire che, per preservare gli interessi dell’Impero, tutto era lecito. 

Il "barone pazzo"



Il libro descrive l’ascesa e la caduta di una serie di signori della guerra come il barone pazzo von Ungern-Sternberg, un generale bianco rifugiatosi in Mongolia dove sperava di emulare le gesta di Gengis Kahn, del quale credeva di essere la reincarnazione, il generale Enver Pasha, fuggito dalla Turchia dopo la rivoluzione di Ataturk, inseguendo il sogno di creare un proprio impero personale unificando tutte le etnie centroasiatiche di religione islamica, e Ma Zhongying, un brigante che per poco non riuscì a conquistare lo Xinjiang. Tutti costoro vengono liquidati a mano a mano che la presa dell’Unione Sovietica su quei remoti territori si fa più salda, grazie all’arrivo di reparti scelti dell’Armata Rossa guidati dal generale Frunze, che si rendono disponibili dopo avere sbaragliato la resistenza dei Bianchi sui fronti occidentali. 


Il generale Frunze




Tuttavia, benché il racconto di queste storie sia affascinante, rivelando fatti storici noti solo agli specialisti di quel periodo e di quelle regioni, la cosa più interessante, come stiamo per vedere è un’altra. È chiaro che Lenin, e più in generale il partito bolscevico, non erano tanto sprovveduti da sognare di costruire un impero in Asia – come recita il sottotitolo del libro -, dal momento che la debolezza economica e industriale della Russia postrivoluzionaria, l’assedio da parte dell’intero concerto delle potenze occidentali, e la necessità di consolidare il regime nei suoi primi anni di vita, facevano sì che la mera sopravvivenza della neonata repubblica fosse allora l’obiettivo più ambizioso perseguibile. Ciò che faceva davvero paura a Londra, come lo stesso Hopkirk spiega, è il cambiamento degli obiettivi di politica internazionale voluto da Lenin dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa occidentale (in Germania e Ungheria, per tacere dell’avanzata fascista in Italia). Coerentemente con la sua analisi dell’Imperialismo, e con la comprensione del ruolo strategico che le lotte dei popoli coloniali avrebbero potuto svolgere per accelerare la prospettiva di una rivoluzione socialista mondiale, l’attenzione di Lenin si sposta decisamente ad Oriente. Se gli imperialisti accerchiano la Russia, e se dai proletari dei loro Paesi non ci si può più aspettare un appoggio decisivo, allora non resta che contro accerchiarli, sottraendo loro il controllo e il dominio sulle colonie, dalle quali traggono le risorse per garantire l’accumulazione allargata del capitale metropolitano (e la pace sociale, ottenuta distribuendo le briciole del saccheggio coloniale alla classe operaia). 


Soldati dell'Armata Rossa in marcia




Particolarmente interessante, in tal senso, è la ricostruzione che Hopkirk fa del rapporto privilegiato che Lenin instaura con il comunista indiano Manabendra Nath Roy, uno dei pochi “cattivi” nei confronti dei quali Hopkirk non può esimersi di esprimere ammirazione per il coraggio, lo spirito di iniziativa e l’intelligenza che saprà manifestare, sia barcamenandosi nei meandri delle diverse correnti presenti nel Comintern della Terza Internazionale, sia quando sarà inviato sul campo per coordinare gli agenti comunisti infiltrati in Afghanistan e in India, con lo scopo di scatenare una rivolta contro il dominio coloniale inglese. Lenin infatti individua giustamente nell’imperialismo inglese il nemico principale e nel subcontinente indiano la sua miniera d’oro, perdendo la quale perderebbe gran parte del suo potere. Nessuna mira “imperiale” dunque, ma un brusco cambio di strategia che, secondo quanto racconta Roy nelle sue memorie - citate da Hopkirk - risultò indigesto ad altri capi bolscevichi (a Zinoviev in particolare), senza che Lenin si lasciasse tuttavia sviare. 


Borodin (al centro) in Cina




Morto Lenin e falliti i tentativi di esportare la rivoluzione in India, Roy viene progressivamente emarginato, mentre l’interesse dell’Unione Sovietica, ora guidata da Stalin, si sposta progressivamente sulla Cina. E qui Hopkirk rende omaggio al coraggio e all’abilità di un altro “cattivo”, quel Michail Borodin che fu appunto incaricato di coordinare le attività del neonato Partito Comunista Cinese. Com’è noto, l’appoggio tattico che Stalin concesse al Kuomintang guidato da Chiang Kai Shek (i comunisti erano stati invitati a entrare nel Kuomintang, agendo come ala sinistra al suo interno) si risolse in un disastro, con il massacro seguito all’insurrezione di Canton, mentre Borodin riuscì avventurosamente a fuggire e rientrare a Mosca (dove ritrovò la moglie che si riteneva fosse stata assassinata dagli sgherri di un signore della guerra cinese). 

Hopkirk conclude recitando il de profundis per il presunto sogno imperiale sovietico in Asia, ma in realtà, al netto dei tanti errori commessi, si può dire che alla lunga distanza la svolta di Lenin abbia prodotto i frutti sperati, ove si consideri che il seme trapiantato in Cina è germogliato nel trionfo del socialismo in quel grande Paese, che ha raccolto l’eredità dell’Unione Sovietica, nella misura in cui incarna il nuovo incubo che turba il sonno dell’imperialismo occidentale (che oggi ha dismesso l’Union Jack per ammantarsi della bandiera a stelle e strisce). Tornando a Losurdo, questo racconto – ancorché apologetico nei confronti dell’Occidente - ci aiuta a collocare con una certa precisione (diciamo fra il 1920 e il 1924) la data del divorzio fra marxismo occidentale e marxismo occidentale. Divorzio che – come auspicava lo stesso Losurdo - si spera possa essere sanato quanto prima con la rinascita del marxismo occidentale. 

Un ultima cosa: agli appassionati del fumetto d’autore, e in particolare delle graphic novel di Hugo Pratt, consiglio di procurarsi Lanterne Rosse, un album che contiene un’avventura di Corto Maltese ambientata negli stessi luoghi e nello stesso periodo di cui abbiamo appena parlato (nella storia compare anche, fra gli altri il barone pazzo von Ungern-Sternberg).

NOTE
(1) Cfr. D. Losurdo, Il marxismno occidentale. Come nacque, comne morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017
(2) Cfr. C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019. 

NOTE SUL MARXISMO SINIZZATO A mò d’introduzione Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) ...

più letti