Lettori fissi

sabato 13 aprile 2024

A PROPOSITO DEL PROLETARIATO ESTERNO

(MERITI E LIMITI DEL PENSIERO DI ZITARA)





Nei miei lavori ho più volte citato le idee “eretiche” del  marxista calabrese Nicola Zitara  (1), pur senza approfondire nei dettagli il suo contributo teorico e limitandomi ad evidenziarne le convergenze con gli autori della scuola della dipendenza, come Samir Amin e gli altri membri di quella che Alessandro Visalli definisce “la banda dei quattro" (2). La lettura di un recente libro di Angelo Calemme (La Questione meridionale dall’Unità d’Italia alla disintegrazione europea. Contributo alla teoria del socialismo di mercato, Guida editori), mi stimola a riprendere la riflessione sul pensiero di Zitara (3) per discutere le sfide teoriche che questo autore ci ha lasciato in eredità e che ora Calemme rilancia, da un lato mettendone in luce i meriti, dall’altro esasperandone, a mio avviso, i limiti. Nelle pagine che seguono seguirò un percorso in quattro tappe: nella prima esaminerò gli argomenti con cui Zitara e Calemme difendono la tesi secondo cui il Regno delle Due Sicilie era, al momento dell’unificazione nazionale, più avanzato di tutti gli altri stati preunitari sulla strada della modernizzazione economica; nella seconda analizzerò il loro punto di vista sull’unificazione come processo di asservimento coloniale del Meridione da parte della monarchia sabauda; nella terza riprenderò  le loro analisi sulla composizione di classe della società meridionale; nell’ultima discuterò la proposta di una  rivoluzione nazional popolare finalizzata alla autonomizzazione del Meridione e alla sua conversione in una formazione socialista di mercato. 



I.


Ripartendo dalla tesi di Zitara, il quale, confrontando i dati economici relativi ai vari staterelli italiani preunitari, ne estrae l’evidenza di un indiscutibile primato del Regno borbonico, Calemme mette tale primato in relazione con l’influenza politico culturale esercitata dai maggiori esponenti della scuola illuminista napoletana (Galiani, Intieri e Genovesi su tutti). Costoro, argomenta, non si limitarono a nutrire un profondo interesse per i temi della produzione, accumulazione e circolazione della ricchezza, ma associarono la sensibilità nei confronti di un’agricoltura in grado di garantire la sussistenza della popolazione all’attenzione nei confronti della manifattura, delle infrastrutture e dei servizi, prospettando il decollo di un moderno sviluppo industriale come effetto del miglioramento produttivo delle attività agricole piuttosto che dell'indebitamento pubblico, e attribuendo allo Stato il ruolo di sovrintendente pubblico degli interessi privati. Questi fermenti vennero fatti propri, scrive Calemme, dai governi del Regno, dando vita a un “riformismo dall’alto” che cercò di promuovere la nascita di una borghesia industriale e di un’ala riformatrice dell’aristocrazia rurale.


Antonio Genovesi



Sugli effetti concreti di questo attivismo illuminato delle élite regnanti mi pare che Calemme sia più ottimista dello stesso Zitara. Costui ribadisce, citando fra gli altri Nitti, che “nel Mezzogiorno era più grande ricchezza che in quasi tutte le parti del Nord”, parla di un protoindustrialismo basato soprattutto sulla produzione domiciliare, e mette in luce come le alte tariffe doganali fossero riuscite a difendere il Regno dalla penetrazione delle merci inglesi e francesi, concludendo che nel Sud esistevano le condizioni minime per un’evoluzione autonoma verso l’economia mercantile e l’industrializzazione (il che avrebbe salvato l’area dal sottosviluppo e dalla subordinazione coloniale). Quanto a Calemme ritiene che gli insediamenti industriali nel settore della siderurgia e della metalmeccanica fossero qualcosa di più di “efflorescenze prive di consistenza”, rappresentando piuttosto i primi esempi di transizione dalla manifattura all’industria moderna, transizione cui lo stato borbonico contribuì promuovendo lo sviluppo della marina mercantile, delle ferrovie e della telegrafia, svecchiando gli ordinamenti giuridici, sostenendo la formazione tecnica e professionale e incoraggiando gli investitori stranieri (cui talvolta veniva offerta la naturalizzazione). Fermenti cui contribuirono la Banca del Regno delle Due Sicilie e la Borsa di Napoli (tanto che Rothschild e altri grandi finanzieri stranieri aprirono le loro filiali nella capitale del Regno). In conclusione: secondo Calemme i Borboni erano riusciti ad avviare la trasformazione in senso capitalistico del Sud con vent’anni di anticipo sugli altri stati italiani dell’epoca.


Dalla lettura di Zitara non emergono però analoghe tendenze modernizzanti nel settore agricolo: “la pressione demografica, scrive, ostacolava ogni progresso, alimentando la frantumazione fondiaria e vincolando grandi estensioni di terra alla cerealicoltura, poco confacente a clima e suoli”. Ciò detto, il fatto che l’economia fosse scarsamente monetizzata e orientata all’autoconsumo faceva comunque sì che la condizione contadina fosse migliore di quella post unitaria. 


Nicola Zitara



II.

La retorica risorgimentale che celebra l’Unità nazionale raggiunta nel 1861, argomentano Zitara e Calemme, serve a mascherare il cinico interesse di un Regno di Sardegna che la crisi del 1857/58 e le spericolate scelte economiche cavouriane avevano trascinato sull’orlo del fallimento. Al punto che Nitti commentava che il default si sarebbe potuto evitare solo confondendo le disastrare finanze piemontesi con quelle di uno stato più ricco, qual era a quei tempi il Regno delle Due Sicilie. Serve inoltre a nascondere il ruolo decisivo giocato dagli interessi geopolitici inglesi. Le politiche  protezioniste dei Borboni penalizzavano infatti le merci inglesi (e anche quelle francesi), ma soprattutto l’imminente apertura del Canale di Suez faceva del Meridione (in particolare della Sicilia) un nodo strategico delle rivitalizzate rotte mediterranee. Di qui il fattivo appoggio offerto alla conquista sabauda (frutto della spregiudicata politica di alleanze del manovriero Cavour, vedi il successivo appoggio della Francia alle guerre contro l’Austria). 


La spoliazione del Meridione inizia subito dopo l’unificazione: viene prelevato dal Sud il 65% di tutta la moneta circolante del nuovo Regno, e contemporaneamente inizia lo strangolamento delle industrie sviluppatesi all’ombra del riformismo borbonico. Naturalmente  le ruberie non basterebbero di per sé a giustificare il ricorso alla categoria del colonialismo.  Il colonialismo, argomenta Zitara, non è un problema di redditi ma di strutture economico sociali: a partire da quel sottosviluppo (4) che, nel caso del Sud Italia, è il prodotto dell’inclusione del Sud nel mercato nazionale e nel contemporaneo blocco della spinta alla nascita di una produzione industriale autonoma. In particolare, sono l’estensione a tutti gli ex stati pre unitari del sistema fiscale e doganale piemontese e l’abolizione dei dazi interni a colpire duramente. Di fronte all’aumento della pressione fiscale, i proprietari terrieri reagiscono imponendo la conversione monetaria dei canoni di affitto dei fondi, che prima venivano regolati in natura, per cui il contadino è costretto a convertire in prodotti per il mercato i prodotti per il consumo domestico. 


Camillo Benso conte di Cavour



Il sistema si articola su due livelli: da un lato, la pressione finanziaria del Nord colpisce tutti i settori economici meridionali, dall’altro la classe padronale si rifà sulla classe contadina che subisce un rapido processo di immiserimento, dovuto anche al fatto che lo sviluppo di un’agricoltura estensiva specializzata (agrumi, olio e vino) per l’esportazione (favorita dalla politica inizialmente liberista del nuovo governo nazionale) scaccia i coloni e i pastori dalla terra. Nei “normali” processi di proletarizzazione associati all’accumulazione primitiva il lavoro contadino “liberato” dalla terra viene reimpiegato nelle industrie, ma la mancanza e/o la scarsità di queste ultime fa sì che il solo sbocco possibile per i contadini meridionali divenga l’emigrazione di massa: di qui il famoso detto “briganti o migranti” (5). 


Il punto di non ritorno che segnò l’inesorabile declino del Sud, scrive Calemme, fu la svolta protezionista adottata dal governo Depretis nel 1887. La precedente politica liberista aveva apportato benefici alle esportazioni delle monocolture agricole di cui sopra, dopodiché il passaggio al protezionismo (che serve a favorire la nascente industria settentrionale) chiude gli sbocchi di mercato e consolida la morsa del sottosviluppo. Nitti, annota ancora Calemme, pensava che il “sacrificio” del Sud in favore del resto d’Italia fosse inevitabile per consentire l’ingresso del Paese nel concerto delle nazioni industriali, ma pensava anche che il sacrificio sarebbe stato temporaneo e che la reindustrializzazione del Sud avrebbe seguito l'industrializzazione del Nord. Il che non è evidentemente avvenuto. E’ invece avvenuto che le tradizionali aspirazioni contadine di possedere la terra sono progressivamente venute meno, sostituite dal miraggio di una industrializzazione mai arrivata, mentre nel secondo dopoguerra è arrivato il consumismo neocapitalista in un Meridione relativamente spopolato dalle reiterate ondate migratorie e trasformato da area a vocazione agricola ad area di consumo scarsamente produttiva e quindi in costante disavanzo.


III.

Sia in Zitara che in Calemme l’analisi della composizione di classe del Sud Italia si intreccia con le critiche alle sinistre italiane, imputate di persistenti errori di comprensione della realtà sociale e delle aspirazioni popolari, se non di veri e propri tradimenti nei confronti degli interessi delle masse meridionali. Le accuse risalgono indietro nel tempo fino a coinvolgere lo stesso Gramsci, di cui entrambi gli autori si professano pure allievi, riconoscendolo come l’unico teorico marxista che abbia compiuto un serio sforzo di comprensione della Questione Meridionale. Zitara gli rimprovera tuttavia di non avere capito che, dopo decenni di disintegrazione sociale causata dalla condizione coloniale, il proletariato meridionale era solo in minima parte composto di forza lavoro agricola, mentre la maggioranza era ridotta alla condizione di forza lavoro di riserva per le industrie settentrionali e/o straniere. In ragione di tale equivoco, comunisti e socialisti non hanno mai smesso di “ricacciare l’opposizione meridionale nel circolo vizioso delle arcaiche lotte per la terra” (6). In buona sostanza, rincara Calemme, Gramsci ragionava nei termini classici di un’alleanza fra operai e contadini, presupponendo una sostanziale uniformità di interessi fra i due strati proletari. 


L’equivoco si reitera e rafforza nel secondo dopoguerra, allorché si dà per scontata la sostanziale convergenza delle due Italie sul terreno della resistenza democratica e antifascista, laddove il proletariato meridionale è insensibile nei confronti di una democrazia che lo ha sempre ignorato e tradito, per cui percepisce la legittimazione resistenziale come una nuova forma di legittimismo colonialista (7). La rottura fra proletariato meridionale e PCI si aggrava quando Togliatti, fra il 47 e il 50, egemonizza ma al tempo stesso frena le lotte per la socializzazione della terra, limitandone la ridistribuzione ai soli campi incolti (per inciso: vengono redistribuite quote insufficienti per sostenere l’autosufficienza economica degli assegnatari, per cui le terre torneranno rapidamente nelle mani dei nuovi baroni). Insomma: da un lato si insiste sullo schema della terra ai contadini, continuando a pensare alla Questione Meridionale come una questione eminentemente agraria, dall’altro lato non si agisce coerentemente e radicalmente nemmeno su tale terreno. 


Non è che in campo marxista, argomenta Zitara (8) mancasse la consapevolezza dell’unificazione come processo di colonizzazione e dei livelli di supersfruttamento che ciò implica, eppure sul piano politico si è sempre negata pervicacemente l’esistenza di due italie, nel timore che eventuali spinte autonomistiche venissero egemonizzate dalle destre. Timore ingigantito dalla rivolta di Reggio Calabria cappeggiata dai fascisti, che piuttosto avrebbe dovuto ispirare riflessioni autocritiche sulla mancata rappresentazione del proletariato meridionale, condannando le masse dei disoccupati all’afasia  politica e alla disponibilità nei confronti delle sirene di destra (9). 


Vediamo ora l’analisi di classe in base alla quale Zitara, e Calemme con lui, sostiene la tesi secondo cui, nel nostro Paese, esistono due proletariati che, non solo non condividono gli stessi interessi e obiettivi, ma sono oggettivamente in conflitto reciproco. Il primo argomento teorico di Zitara trascende lo scenario italiano e si aggancia direttamente alla tradizione della scuola della dipendenza, come enunciato in apertura di questo articolo. Si tratta di una questione cruciale che rovescia il dogma marxista in base al quale la transizione al socialismo è possibile solo nei punti alti dello sviluppo capitalistico, a partire da una constatazione di fatto che anche chi scrive (10) ha in più occasioni evidenziato: la classe operaia occidentale non ha portato vittoriosamente a termine una sola rivoluzione e, se più di un terzo dell’umanità vive oggi in sistemi socialisti (malgrado il crollo dell’Unione Sovietica e dei paesi satelliti!) ciò si deve esclusivamente a rivoluzioni condotte dalle larghe masse delle periferie del mondo (in ampia maggioranza contadine). 


I marxisti ortodossi, nota Zitara, cercano di aggirare la questione sostenendo che si è trattato di eventi diretti da partiti che erano espressione di minoranze operaie, ma l’obiezione cade ove si consideri che sia in Russia che in Cina l’egemonia della classe operaia ha realmente potuto affermarsi a rivoluzione avvenuta, sull’onda dei successivi processi di industrializzazione. Quanto appena osservato si spiega solo riannodando il filo rosso che si dipana dalle riflessioni di Marx sulla necessità dell’emancipazione del popolo irlandese quale condizione imprescindibile del risveglio della classe operaia inglese, anestetizzata dalle briciole del saccheggio imperialista; all’analisi di Lenin sull’imperialismo e sull’intreccio fra rivoluzione sociale e rivoluzione nazionale;  alle tesi di Baran e Sweezy che hanno inaugurato le riflessioni postbelliche su colonialismo sottosviluppo e dipendenza (11); alle riflessioni di marxisti sudamericani come Mariategui e Linera sul ruolo rivoluzionario delle comunità originarie andine (12); per finire con il concetto di “proletariato esterno” - coniato da Braudel e ripreso da Samir Amin (13) – che è il nodo centrale del pensiero di Zitara.


A sostanziare il nodo in questione è la constatazione che, nel tardo capitalismo, i maggiori livelli di sfruttamento e le contraddizioni più radicali si collocano alla periferia del sistema mondiale, in quelle regioni in cui la penetrazione del denaro e delle merci ha distrutto le forme di vita e i sistemi produttivi e riproduttivi tradizionali senza integrare le persone in rapporti sociali assimilabili a quelli dei centri metropolitani, per cui i livelli occidentali di benessere si associano alla miseria e al supersfruttamento delle masse periferiche. Dunque le classi subalterne non sono divise da diversi gradi di maturazione politica, come sostengono la maggior parte dei marxisti occidentali, bensì da interessi diversi, di fatto contrastanti. Occorre quindi distinguere fra proletari interni ai processi produttivi che il capitale gestisce direttamente, e proletari esterni,  anch’essi coinvolti nell’economia capitalistica ma in modo indiretto, tramite la mediazione di forme sociali ibride che il capitalismo tiene in vita anche attraverso la forma limite della disoccupazione (esercito di riserva globale) (14). 


In tale contesto, argomenta Zitara, perdono senso le categorie classiche di sottoproletariato e aristocrazie operaie, rimpiazzate appunto da quelle di proletariato esterno ed interno, il primo è la base ideale delle politiche rivoluzionarie il secondo è la base ideale del riformismo: un conflitto che si delinea fin dallo scontro fra Seconda e Terza Internazionale e caratterizza l’intera storia moderna del lavoro subalterno e delle sue espressioni politiche (la socialdemocrazia, annota Zitara, non è frutto di una deviazione ideologica, bensì il prodotto storico di interessi reali). Questo schema interpretativo viene applicato alla storia d’Italia: “Fu subito chiaro, scrive Zitara, che le masse settentrionali ferme su una logica rivendicazionista non avrebbero favorito il movimento contadino, che poteva sfociare solo nel rovesciamento del sistema.” (15). Dopodiché aggiunge che che questi due soggetti sociali possono sì, come voleva Gramsci, avere lo stesso obiettivo strategico  ma, al contrario di quanto ipotizzato dallo stesso Gramsci, per realizzarlo dovranno percorrere strade diverse e autonome, perché autonomi e contrastanti sono i rispettivi interessi. Ovviamente il proletariato esterno meridionale non è fatto solo di contadini e disoccupati: è un insieme complesso e disomogeneo di strati sociali accomunati da condizioni di precarietà, un soggetto che può essere descritto, in analogia con le masse periferiche del Terzo Mondo, come una nuova classe di lavoratori coinvolti nella produzione capitalistica ma esclusi dai suoi vantaggi. 


L’analisi di classe di Zitara, riproposta da Calemme, prende in considerazione altri due soggetti fondamentali. Il primo è una borghesia, a sua volta stratificata e disomogenea, che non trova precisa e stabile collocazione nello scacchiere politico nazionale, in quanto priva di effettiva forza contrattuale, per cui svolge di fatto un ruolo analogo alle borghesie ”compradore” (16), svolge cioè il ruolo di cinghia di trasmissione, di mediatore dell’egemonia economica, politica e culturale delle élite settentrionali. Zitara parla di “tre mediazioni concatenate”: dai gruppi egemonici settentrionali allo Stato, dallo Stato agli intellettuali meridionali, da questi alle classi subalterne. Gli intellettuali, anello intermedio della catena in questione, sono il secondo dei due soggetti fondamentali di cui sopra. La storia di questo strato, secondo Zitara, viene da lontano, nel senso che fin dall’inizio le professioni liberali e le magistrature hanno svolto ruoli analoghi, se non identici, a quelli dell’abito talare e del cavalierato destinati ai cadetti dei signori feudali. Gli intellettuali sono  una classe di puri consumatori i cui ranghi sono venuti ingrossandosi a mano a mano che il sistema si impoveriva offrendo sempre meno alternative (17) e, dal momento che i ceti impiegatizi inseriti nella Pubblica Amministrazione e le professioni liberali godono di redditi equiparabili a quelli dei loro omologhi settentrionali, costoro sono il principale alleato del dominio coloniale. Ecco perché, ironizza Zitara, “ancora oggi gli unici veri italiani del Sud sono gli intellettuali” (18). 


IV.

Le idee fin qui analizzate rappresentano un mix di formidabili intuizioni – in particolare sul piano della contro analisi storica del processo di unificazione nazionale e della denuncia delle responsabilità delle sinistre – e di elementi di debolezza - analogie suggestive ma talvolta non del tutto fondate fra Meridione e Paesi del Terzo Mondo, insufficienti aggiornamenti sulle trasformazioni  socioeconomiche e antropologiche che il nostro Sud ha subito degli ultimi decenni. Prima di tracciare un bilancio critico occorre però completare la nostra analisi descrivendo il progetto politico di Zitara e il rovesciamento di paradigma – rispetto a Marx – su cui tale progetto si fonda.  


Il compito prioritario, argomenta Zitara, è dare un volto politico alle forze popolari del Sud, condizione imprescindibile per consentire la partecipazione del proletariato esterno alla lotta di classe, il che è possibile a due condizioni: far sì che esso elabori in forma autonoma i propri obiettivi e la strategia per realizzarli, a partire dalla presa di coscienza di essere oggetto di sfruttamento e oppressione coloniale. Una volta ottenuta tale consapevolezza, la lotta per la liberazione dovrà procedere su due binari: quello della emancipazione nazionale e quello sociale della lotta contro le borghesie locali che mediano l’egemonia del Nord. Parliamo insomma di una  rivoluzione nazional popolare, di una “via subnazionale al socialismo”che permetta in primo luogo di realizzare una piena e buona occupazione e di ottenere un minimo di vita dignitosa per le masse. Questo obiettivo, alternativo a quelli della lotta politico sociale della sinistra nazionale, dovrà necessariamente incarnarsi nella creazione di una nuova entità nazionale nella misura in cui (e qui le idee di Zitara evocano il concetto di delinking (19) di Samir Amin) solo erigendo nuove frontiere sarà possibile combattere la disoccupazione attraverso la valorizzazione delle risorse locali e l’adozione di forme di protezionismo mirate. 


Ma di che socialismo parliamo? Per liberare il Sud, scrive Zitara, non basta uscire dallo Stato italiano e dall’Europa: “bisogna uscire da una cultura che viene dall’utilitarismo inglese e americano” (20) incompatibile con l’antica civiltà mediterranea. Tuttavia quest’ultima affermazione appare in stridente contraddizione con l’invito a ribaltare la concezione marxiana che associa il socialismo all’abolizione della proprietà privata: “Marx vuole abolire la proprietà invece l’assunto va capovolto: ciascuno sia proprietario del proprio prodotto mentre nessuno deve poter possedere il prodotto altrui”. L’idea di libertà, scrive infatti Zitara esprimendo un’opinione che Marx avrebbe liquidato come una robinsonata, è sempre quella classica, associata al pieno diritto di vendere e comprare, definizione che, ahimè, è una delle colonne ideologiche su cui si basa quel liberalismo anglosassone che Zitara dice di voler liquidare.





In poche parole, siamo all’interno di una cornice concettuale che rievoca i classici del socialismo utopistico ottocentesco – Owen ma soprattutto Proudhon – , come esplicitamente confermato da Calemme, il quale mi pare (anche se posso sbagliarmi, non avendo letto tutti gli scritti del suo maestro e ispiratore) che radicalizzi il pensiero di Zitara, spingendolo ulteriormente nella direzione appena descritta. Dopo aver reiterato la necessità di rovesciare l’assunto marxiano dell’abolizione della proprietà privata, Calemme scrive infatti che quella di Zitara è “una versione neo giusnaturalista e neo contrattualista” del socialismo scientifico (sic) marxista nella misura in cui egli ritiene che libertà e proprietà individuali siano diritti naturali inalienabili preesistenti al contratto sociale, già sanciti dalla mercatura medievale, ribaditi dai diritti dell’uomo e del cittadino dell’89 e da Proudhon e altri esponenti del socialismo utopistico. Posto che non si capisce come si possano mettere insieme categorie come giusnaturalismo, contrattualismo, diritti naturali (individuali) inalienabili, nonché l’affermazione che “l’individuo umano libero e autonomo è frutto del soggetto economico e del suo diritto di compravendita” con l’invito a “battersi contro ogni orientamento liberale” (?), non sorprende che questi salmi finiscano in gloria, cioè con la condanna della pianificazione socialista e della distribuzione del prodotto sociale controllata dallo stato, laddove il socialismo liberale del costituendo soggetto nazionale dell’Italia del Sud dovrà limitare il compito dello Stato alla sovrintendenza pubblica degli interessi privati a garanzia dello sviluppo equilibrato di una società fatta di liberi produttori, “ognuno con il proprio capitale preso in prestito da una banca di denaro pubblico”. A questo punto disponiamo di tutti gli elementi per tracciare un bilancio critico. 


* * *

Premetto che non dispongo delle competenze storiche per giudicare se, nel 1861, il Regno delle Due Sicilie fosse effettivamente il più avanzato sul piano dello sviluppo economico in senso capitalista rispetto agli altri stati preunitari, anche se mi pare che sia Zitara che Calemme offrano argomenti convincenti a sostegno di tale tesi. Ritengo invece del tutto condivisibile la tesi del saccheggio coloniale da parte degli occupatori sabaudi e della relazione strutturale fra decollo industriale del Nord e “sviluppo del sottosviluppo” (21) del Meridione, un processo che potremmo anche definire, con David Harvey,  accumulazione per espropriazione (22). In particolare, mi pare meritoria la demistificazione delle retorica risorgimentale (tanto cara anche a certa sinistra) che mette in luce come il successo dell’impresa dei Mille non sarebbe stato possibile senza l’appoggio sabaudo, motivato dalla necessità di mettere le mani sul “tesoro” dei Borboni per salvare dal fallimento il Regno di Sardegna, e senza l’appoggio inglese motivato dall’esigenza geopolitica di rimuovere gli ostacoli al controllo imperiale su Mediterraneo. Senza dimenticare l’ambiguità garibaldina dei confronti delle aspirazioni delle masse contadine, ferocemente represse da Nino Bixio. 


L'eccidio di Bronte



Resta il fatto che, proprio in ragione di quelle aspirazioni, ampi settori delle masse meridionali aderirono entusiasticamente alla mobilitazione contro i Borbone. Il che conferma che il riformismo dall’alto di questi ultimi, nei confronti del quale il giudizio positivo di Calemme mi pare assuma a volte toni eccessivi, era “monco”, non aveva cioè affiancato gli sforzi per sostenere il processo di sviluppo industriale ad altrettanti sforzi per promuovere la modernizzazione dei rapporti sociali nelle campagne. E’ quindi probabile che, ove lasciato proseguire autonomamente la propria evoluzione, il Regno borbonico sarebbe evoluto verso un modello “prussiano”, cioè verso l’integrazione fra nascente borghesia industriale e aristocrazia “junker”, un regime moderno ma con spiccate caratteristiche autoritarie. 


Passo alle critiche alla sinistra. Premetto che le critiche a Gramsci, cui viene rimproverato di non avere realizzato che la questione meridionale, dopo decenni di disintegrazione sociale delle campagne, non era più riducibile alla questione agraria, e che il progetto rivoluzionario non poteva essere proposto nei termini classici di alleanza operai-contadini, mi paiono francamente ingenerose, nel senso che si fondano su una retrodatazione di condizioni che sarebbero giunte a completa maturazione solo nel secondo dopoguerra. Ciò detto condivido la denuncia degli errori che, dopo la riforma agraria “dimezzata” voluta da Togliatti nell’immediato dopoguerra, si sono fatti sempre più evidenti con il sistematico disconoscimento degli interessi del proletariato esterno meridionale, fino alla mancata autocritica dopo la rivolta di Reggio Calabria, per avere consegnato l’egemonia della rabbia popolare ai fascisti. L’ossessione che ha inchiodato le sinistre italiane a ragionare sul Sud esclusivamente nei termini di ridistribuzione delle terre (obiettivo che ormai i contadini proletarizzati avevano rimpiazzato con le aspettative di occupazione industriale) somiglia a quella dei partiti comunisti sudamericani, i quali hanno continuato a perseguire lo stesso obiettivo senza riconoscere il potenziale anticapitalista delle comunità originarie e delle masse proletarie esterne ai centri di sviluppo industriale (23). 


Credo che Zitara abbia perfettamente ragione nel puntare il dito contro la secolare diffidenza (che risale alle sferzanti battute del Marx del Manifesto contro l’ottusità dei contadini), non di rado venata di disprezzo, nei confronti del mondo contadino. E naturalmente condivido, come ho ampiamente argomentato altrove (24), la necessità di prendere atto che le sole rivoluzioni socialiste riuscite sono avvenute in Paesi economicamente “arretrati” ed hanno avuto come protagoniste le larghe masse contadine piuttosto che la classe operaia. Così come sono a mia volta convinto che gli interessi del proletariato esterno e di quello interno siano conflittuali. Ma se questo vale tuttora sul piano dello scontro geopolitico - oggi alle soglie della Terza guerra mondiale – fra imperialismo occidentale e fronte delle nazioni nate dalle rivoluzioni di liberazione nazionale seguite al Secondo conflitto mondiale, mi sembra opinabile se riferito al conflitto fra centri e periferie interni al blocco occidentale. Per quanto riguarda, in particolare, il conflitto fra le due italie, mi pare che lo schema bipolare su base geografica sia stato progressivamente eroso dai processi di immiserimento e precarizzazione che decenni di neoliberismo hanno innescato a danno del proletariato interno settentrionale. Oggi l’opposizione centro periferia tende ad assumere una configurazione a pelle di leopardo, per cui i sud (al plurale) europei (a partire dal nostro, ma vedi anche la colonizzazione della Germania Est da parte della Germania Ovest) non sta più solo al Sud, ma anche nei sobborghi delle metropoli gentrificate, nelle province tagliate fuori dai flussi del capitale globale, ecc. (25). Se ciò è vero, torna di attualità la questione dell’unità proletaria a livello delle singole nazioni più che a livello subnazionale. Unità che non si pone in termini di alleanze, bensì come progetto di ricostruzione politica di una classe lavoratrice disarticolata e dispersa tanto sul piano sociale che sul piano territoriale dai decenni lotta di classe dall’alto che il capitale ha condotto, con la complicità delle sinistre.


C’è poi un fattore culturale e antropologico che rende a mio avviso improbabile il progetto di mobilitare le masse meridionali in vista di una secessione rivoluzionaria. Chi scrive ha vissuto per quindici anni in Salento, insegnando all’Università di Lecce dove ha avuto occasione di frequentare quotidianamente centinaia di studenti appartenenti a ogni strato sociale (non solo medio alto: ai primi del duemila ancora molte famiglie della provincia povera mandavano i figli a frequentare i corsi della triennale, nell’illusione che ciò garantisse più opportunità di lavoro). Ciò mi ha permesso di misurare l’impatto della penetrazione della cultura consumistica (non solo attraverso i media, ma anche grazie all’interazione con i massicci flussi turistici che invadono il territorio per buona parte dell’anno). Ebbene: in questi ragazzi non ho trovato tracce di odio e risentimento per i “colonizzatori” (26) , ho trovato invece un pressoché totale allineamento con i gusti, i valori, i desideri e le aspirazioni “americanizzate” dei loro coetanei settentrionali e/o di altri Paesi occidentali. Quelli che non emigrano al Nord o all’estero, sono impegnati a praticare vari generi di auto-imprenditoria terziaria nei settori del turismo, del commercio, dei nuovi media, della comunicazione pubblicitaria, ecc. Rieducare politicamente questi strati di proletariato esterno “postmodernizzato” non sarà impresa meno ardua di quella di restituire coscienza dei propri interessi di classe al proletariato interno immiserito e precarizzato dalle “cure” delle élite di Bruxelles. 


Proudhon 



Ma veniamo a quello che considero il limite maggiore dei discorsi sin qui presi in esame, vale a dire il tentativo di resuscitare un socialismo utopistico alla Proudhon.  Ammesso e non concesso che oggi sia, non dico realizzabile, ma anche solo concepibile “una società di liberi produttori” (Owen e Proudhon potevano ancora nutrire un simile sogno perché vivevano nella fase aurorale del capitalismo industriale, ma nemmeno loro avrebbero potuto farlo se fossero vissuti nell’era del tardo capitale monopolistico) non vedo come si possa non capire che tale società, in seguito alle differenze di capacità, talento, aggressività, ambizione, ecc. di questi produttori sarebbe destinata a subire un rapido processo di concentrazione dei capitali nella mani di una minoranza a scapito della maggioranza. Peggio mi sento di fronte alla schizofrenia teorica che, da un lato esclude ogni forma di liberismo economico e critica la filosofia utilitarista, dall’altro indica nella proprietà privata e nella piena libertà di vendere e comprare il fondamento dei “diritti naturali” dell’individuo, per tacere della rivendicazione dei principi giusnaturalisti e contrattualisti che, come insegna Andrea Zhok nella sua fondamentale Critica della ragione liberale (27) sono, proprio assieme all’utilitarismo, il fondamento stesso del moderno liberalismo borghese (e quindi anche della sua attuale, spietata versione neoliberista e dell’ordoliberalismo che governa la costituzione materiale della UE).


Qualcuno potrebbe a questo punto obiettare che chi scrive, sulle tracce di autori come Vladimiro Giacché e Giovanni Arrighi (28) ha ripetutamente messo in discussione il modello classico di socialismo formulato da Marx ed Engels, i quali prevedevano l’abolizione integrale del mercato. Vero, solo che io mi riferivo ai socialismi del secolo XXI che crescono in Asia, Africa e America Latina, e in particolare a quel socialismo in stile cinese, che, avendo imparato la lezione del fallimento sovietico, ha restituito ai contadini la libertà di vendere il proprio plus prodotto (ma non la proprietà della terra, che resta saldamente nelle mani dello stato), ha consentito (entro certi limiti e sempre sotto controllo statale) l’accumulazione privata, impedendo però alla borghesia nazionale di tradurre in potere politico il potere economico, e mantenendo il controllo pubblico sui settori produttivi strategici, sulle banche, sulla ricerca scientifica e sui servizi essenziali. Per inciso, le riforme postmaoiste hanno realizzato proprio gli obiettivi prioritari indicati sia da Zitara che da Calemme: piena occupazione, una vita dignitosa per centinaia di milioni di cittadini strappati alla miseria, piena sovranità nazionale dopo più di un secolo di umiliazioni coloniali, per tacere della capacità di competere alla pari sul piano economico, scientifico e tecnologico con l’imperialismo americano che, non a caso, si prepara ad aggredire militarmente questo scomodo competitor, che lo inquieta sul piano ideologico-politico ancora più che su quello economico. In conclusione: niente rivoluzione senza partito rivoluzionario e niente sviluppo socialista senza stato socialista. Per parafrasare il duo Zitara Calemme: per emancipare il proletariato esterno non basta uscire dalla UE, bisogna rompere con il blocco capitalista occidentale e la sua ideologia (e quindi anche con la sua idea di libertà economica!). Quanto all’Italia, il nodo non è più geografico, nel senso che non si tratta più di liberare il Sud, bensì di liberare i sud (minuscolo plurale) estendendo la rivoluzione nazional popolare all’intero territorio.  


Note


(1) Le citazioni si trovano in Utopie letali (Jaka Book, Milano 2013), Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi, Milano 2019) e Guerra e rivoluzione (2 voll. Meltemi, Milano 2023).


(2) Gli altri membri della “banda” sono Gunder Frank, Giovanni Arrighi ed Immanuel Wallerstein. Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi Milano 2020.


(3) I testi di Zitara cui farò riferimento in questo articolo sono: Il proletariato esterno (Jaka Book, Milano 1972), L’unità d’Italia. Nascita di una colonia (Jaka Book, Milano 1971, ristampa 2010), L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria (Jaka Book, Milano 2010) e Negare la negazione. Introduzione al separatismo rivoluzionario, Città del Sole, Reggio Calabria 2001.


(4) Cfr. fra gli altri, G. Myrdal, Teoria economica e paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano 1957; P. Baran, Il surplus economico, Feltrinelli, Milano 1962; P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968, oltre al già citato Dipendenza di A. Visalli.

   

(5) Nelle analisi di Zitara e Calemme il fenomeno del brigantaggio ha il valore di una prima manifestazione della resistenza del proletariato esterno meridionale all’’occupazione coloniale.


(6) In Negare la Negazione, cit.


(7) Anche questo giudizio sull’uso strumentale della retorica resistenziale come legittimismo colonialista si trova in Negare la negazione, cit.


(8) Zitara denuncia questa schizofrenia dell’atteggiamento dei partiti italiani di ispirazione marxista ne L’unità d’Italia, cit.


(9) Ne Il proletariato esterno cit. Zitara scrive che la esibita “purezza morale” fascista che punta il dito contro corruttela, clientelismo e le baronie politiche che la democrazia italiana ha imposto al Sud affascina le masse meridionali.


(10) Cfr. Guerra e rivoluzione, vol. I (Le macerie dell’Impero), cap. I (“La cassetta degli attrezzi).


(11) Vedi nota 4. 


(12) Ne Il proletariato esterno, cit. Zitara nota come la produzione per l'autoconsumo e l’economia di villaggio abbiano svolto  per la classe contadina un ruolo di autodifesa contro lo sfruttamento. Il ruolo di resistenza anticapitalista dei residui di forme sociali precapitalistiche è un tema centrale di molti marxisti latinoamericani. Vedi, in particolare, J. C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti, Einaudi, Torino 1972 e A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Suenos, Quito 2015. In particolare Linera estende il concetto di classe rivoluzionaria alle comunità originarie andine, in polemica con i marxisti ortodossi che le considerano forme comunistiche primitive che devono essere “sciolte” nei moderni rapporti di produzione capitalistici prima di poter essere integrate nel fronte della lotta di classe.


(13) Accenno a questo rapporto fra Samir Amin e Zitara in Guerra e rivoluzione, cit., vol. II, pp. 148 e segg. 


(14) Di questa capacità del capitale metropolitano di mettere al lavoro forme economiche ibride in cui il mercato capitalistico convive con rapporti sociali di tipo tradizionale, discute A. G. Linera nel libro citato alla nota 12.


(15) Ne Il proletariato esterno, cit. 


(16) Calemme usa il termine di lumpenborghesia per denotare questa nuova borghesia dominante che rafforza i rapporti di subalternità economica dei Paesi ex coloniali


(17) Sempre ne Il proletariato esterno, Zitara sostiene che a mano a mano che i figli vengono avviati agli studi ciò genera un nuovo fattore sociale che alimenta la disoccupazione intellettuale, foriera di tensioni particolarmente esplosive.


(18) Ne L’unità d’Italia, cit.


(19) Sul concetto di delinking cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986 e Classe et nation, Nouvelles Editions Numériques Africaines, Dakar 2015. Vedi anche H. Jaffe, Via dall'azienda mondo,Jaka Book, Milano 1995.


(20) In Negare la negazione, cit.


(21) Cfr. P. Baran e G. Myrdal opp. citt.


(22) Cfr. D. Harvey, The Anti-capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.


(23) vedi nota 12.


(24) Vedi Guerra e rivoluzione, cit.


(25) Su questa nuova dimensione del conflitto centri periferie, cfr. C. Guilluy, La France périphérique, Flammarion, Paris 2014.  


(26) Il tema dell’odio meridionale contro i colonizzatori ricorre di frequente nel libro di Calemme (la pulsione violenta della masse meridionali, scrive, “non è esecrabile ma è l’ultimo vestigio della loro umanità, della loro dignità”). Calemme traccia un filo che si dipana dai Fasci siciliani, agli eventi di Avola e Battipaglia, alla rivolta di Reggio, fino ad appellarsi al fenomeno mafioso come “il tentativo storico della classe subalterna meridionale eterna allo sviluppo storico di avviare con la violenza un nuovo processo di accumulazione originaria”, discorso che, mentre può avere un qualche senso alle origini del fenomeno, mi pare non più sostenibile nella sua attuale versione globalizzata e finanziarizzata, totalmente integrata nei vertici del sistema capitalista mondiale.


(27) A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2020.


(28) Vedi fra i molti scritti che Giacché dedica al tema, il suo (a cura di) Economia della rivoluzione, il Saggiatore, Milano 2017, quanto ad Arrighi vedi, in particolare, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.



  

 


    



 

lunedì 25 marzo 2024

SALARIO MINIMO?
TIMEO DANAOS ET DONA FERENTES






L’Italia è l’unico Paese europeo che abbia registrato una contrazione dei salari reali nel trentennio 1990-2020; è anche il Paese che vanta il poco invidiabile record di una percentuale a due cifre di working poor (nel 2019 i lavoratori in condizioni di povertà erano l'11,8% del totale); è infine il Paese in cui i lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore agli otto euro e mezzo l'ora sono più di un milione (1,3). Non sono forse tre buone ragioni per fissare un salario minimo legale, provvedimento che ci viene fra l’altro  sollecitato dall'Europa?  Savino Balzano, sindacalista pugliese (di Cerignola, città natale di Di Vittorio, precisa orgogliosamente) già autore di libri (1) sulle problematiche del lavoro e collaboratore de La Fionda, non è  convinto che questa sarebbe la soluzione giusta per migliorare le condizioni di una delle classi lavoratrici più tartassate del mondo occidentale, e spiega le ragioni di tale opinione in un pamphlet dal titolo Il salario minimo non vi salverà, appena uscito da Fazi Editore.


Giuseppe Di Vittorio, il leader sindacale di cui Balzano
rivendica orgogliosamente di essere concittadino



Il salario minimo, sostiene, potrebbe essere l'ultima di una lunga serie di trappole che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, hanno collaborato a ridurre progressivamente il potere contrattuale dei lavoratori italiani, fino a ridurlo praticamente a zero. Descrivendo le tappe di questa via crucis, l'autore prende le mosse da Luciano Lama, la vestale del moderatismo sindacale che, con parole degne di Menenio Agrippa, spiegò agli operai che l'impasse del lungo ciclo di lotte del decennio 60/70 era l'inevitabile esito di una stagione di rivendicazioni "estremiste", alimentate dall'illusione di fare del salario una variabile indipendente. Purtroppo, ammoniva Lama, appellandosi alle "leggi" dell'economia canonizzate dagli esperti al servizio della Confindustria, il capitalismo conosce una sola variabile indipendente, vale a dire quel profitto che, ove costretto a scendere al di sotto di un "ragionevole" minimo, provoca crisi, disinvestimenti, chiusure di imprese, licenziamenti. 


Una volta incisa nell’opinione pubblica l’idea che la crisi iniziata negli anni Settanta era attribuibile alle intemperanze del sindacalismo di base e dei consigli dei delegati di reparto, (e non alla fine della bonanza delle materie prime a buon mercato, ai conflitti interimperialistici, all'avvio di un nuovo ciclo di finanziarizzazione dell'economia, ecc.), e una volta imboccata la via della "compatibilità" fra livelli salariali e margini di profitto, si è scesi lungo un piano inclinato sempre più ripido. Incassata la sconfitta della Fiat nel 1980, celebrato (con la scarsa opposizione, se non con la benedizione, di una sinistra sempre più sensibile alle sirene neoliberali) il divorzio fra Banca Italia e Tesoro (1981), a partire dal quale è divenuto impossibile ricorrere al debito pubblico per finanziare politiche economiche anti regressive, si è benedetto il compromesso storico PCI-DC celebrato all'insegna dell'austerità come valore "di sinistra" (2). Finché nel 1985 i sindacati, sposando la tesi che attribuiva la causa dell'inflazione al meccanismo di indicizzazione dei salari, firmano il protocollo Scotti che taglia del 15% la scala mobile, che verrà finalmente soppressa nel 1992, lo stesso anno di quel Trattato di Maastricht che segna la definitiva abdicazione dello Stato italiano alla possibilità stessa di praticare politiche economiche anticicliche. 


Luciano Lama contestato alla Sapienza



La cronistoria che Balzano stende dei tradimenti perpetrati nei confronti degli interessi dei lavoratori si articola su due linee, parallele ma strettamente connesse. Da un lato, si impegna a smascherare il mito di un'Europa chiamata a legittimare le politiche di contenimento di retribuzione e spesa pubblica come via obbligata per evitare la catastrofe del fallimento. Un’Europa che letteralmente non esiste, scrive Balzano, ove si consideri che non condividiamo una lingua né un’identità comuni, né tanto meno, uno spirito solidaristico unitario; ma se non esistono una comunità o un popolo europei, esiste la UE in quanto sistema giuridico, ingegneria istituzionale, un organismo che, ancorché privo di legittimazione democratica, può dettare ai paesi membri le  politiche pubbliche. Esiste l'Europa come spazio che impone la concorrenza fra stati per attirare capitali garantendo bassa pressione fiscale, tagli allo stato sociale, basso costo del lavoro. L'Europa che nel 2012 ci ha imposto di integrare il Fiscal Compact nella Costituzione, cancellandone con un tratto di penna tutti gli articoli formulati a tutela della dignità del lavoratore e del cittadino.


Dall'altro lato l'autore elenca gli obiettivi che, sfruttando l’inquadramento del Paese nella gabbia europea e la trasmigrazione di vertici sindacali e partitici sotto i vessilli del liberismo, questa spietata guerra di classe dall'alto (3) è riuscita a realizzare sul fronte interno. Di anno in anno, accusa, la classe operaia è stata inondata di menzogne, un coro cui hanno partecipato non solo sindacalisti e politici ma anche intellettuali, studiosi, giornalisti unanimemente impegnati ad assicurare, in occasione di ogni taglio di salario diretto e indiretto (sanità, pensioni, welfare), e di ogni cambiamento peggiorativo delle regole sui contratti di lavoro, che questi “sacrifici” avrebbero garantito un aumento dell’occupazione. 


Ciò che in realtà si è ottenuto è stato l’aumento della precarietà. Così, in un crescendo culminato con il famigerato Jobs Act varato da Renzi, i lavoratori hanno “conquistato”: la liberalizzazione dei contratti a termine; i contratti di apprendistato che hanno istituzionalizzato lo sfruttamento semi gratuito di persone congelate a tempo indeterminato nello status di lavoratori “in formazione” e “in prova” (per tacere dell’alternanza scuola-lavoro, che ha consentito di imporre a migliaia di studenti di sgobbare gratuitamente, e di pagare un sanguinoso tributo alla strage dei caduti per incidenti sul lavoro); la creazione di un esercito di finte partite Iva, inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei “privilegi” dei colleghi regolarmente assunti (operazione accompagnata da una tambureggiante retorica sulle magnifiche sorti e progressive di una nuova generazione di aspiranti “imprenditori di se stessi”); infine, a correzione dell’ “eccesso di tutela” garantito dallo Statuto dei lavoratori, i vincitori delle cause contro licenziamenti immotivati non hanno più potuto ottenere la reintegrazione del posto di lavoro ma solo modesti rimborsi.   





Per colmo di ironia, una volta creato questo variegato esercito di precari, lo si è aizzato contro gli ingiusti “privilegi” di lavoratori garantiti e pensionati, tentando di dirottare la rabbia delle nuove generazioni contro gli anziani, una delle tante guerre fra poveri al pari dei conflitti fra uomini e donne, immigrati ed autoctoni, ecc. Nel frattempo, le sinistre liberal progressiste sventolavano la bandiera arcobaleno (simbolo di quei diritti civili – riservati a individui e gruppi minoritari (4) - che Balzano definisce senza peli sulla lingua il nuovo oppio dei popoli) dimentiche di essere le prime responsabili della falcidia di salari, occupazione e stato sociale. Nel corso dei decenni in cui l’esercito del lavoro abbandonato dai propri generali passava di sconfitta in sconfitta, l’unico provvedimento in controtendenza è stato, pur con i suoi limiti, quel Decreto dignità varato nel 2018 dal governo M5S – Lega, provvedimento che, nella misura in cui poneva un minimo argine agli effetti dell’abolizione dell’Articolo 18, è stato criticato da PD e CGIL perché foriero di rischi di “irrigidimento” del mercato del lavoro. A rassicurare i padroni in merito ai rischi in questione hanno  del resto provveduto i successivi governi Draghi e Meloni.  


A questo punto perché non guardare con favore alla proposta di istituire un salario minimo fissato per legge? In primo luogo, risponde Balzano, perché a sostenerla sono gli stessi soggetti, come la UE, le sinistre liberal progressiste e persino la Confindustria (“non poniamo ostacoli, anche perché noi già paghiamo di più”) che hanno gestito lo scempio dei diritti delle classi lavoratrici appena descritto: timeo danaos et dona ferentes, per citare l’avvertimento di Laocoonte agli imprudenti troiani che si apprestavano a introdurre il cavallo nelle mura cittadine. Per corroborare  il proprio sospetto, Balzano cita fra gli altri il guru del neoliberismo von Hayek: l’uomo che aveva individuato nell’Europa il dispositivo ideale per abbattere il costo del lavoro si è infatti speso a favore di un reddito minimo “per impedire che i poveri possano rappresentare una minaccia”. 


Eppure, gli si potrebbe obiettare, è indubbio che i lavoratori non coperti da contratti collettivi potrebbero trarne giovamento. Vero, replica Balzano ma, a parte il fatto che lavoratori in nero e finti autonomi ne resterebbero fuori,  si tratterebbe comunque di una minoranza, visto che la maggioranza gode di retribuzioni superiori alle  soglie minime previste. Ma soprattutto, aggiunge, il rischio è che, in un contesto di debolezza contrattuale, il salario minimo legale potrebbe trascinare verso il basso le retribuzioni. Un simile provvedimento potrebbe funzionare solo in un contesto contrattuale favorevole alla forza lavoro, svolgendo il ruolo di base retributiva incomprimibile per gli strati più deboli e di primo gradino di una mobilità verso l’alto per quelli più forti, viceversa, in un contesto di debolezza generalizzata, qual è quello attuale, agirebbe da “tappo”, legittimando il rifiuto padronale nei confronti di ogni velleità di aumento (vi diamo già più del minimo) o addirittura le decurtazioni di salari “eccessivi” in situazioni di crisi aziendali e/o di crisi settoriali o generalizzate (non possiamo darvi più del minimo fissato per legge, ed è già fin troppo). Del resto, scrive Balzano, la stessa CGIL ha già siglato contratti che prevedono paghe sotto i 9 euro l’ora (cioè la base che si ipotizza per il salario minimo legale). 


Per capire il vero nodo sollevato da Balzano, occorre però andare al di là delle argomentazioni fin qui esposte. Il fatto è che la sua diffidenza è rivolta in generale contro la regolazione politica dei rapporti di forza fra classi sociali. Un esempio? I diritti acquisiti con lo Statuto dei lavoratori, argomenta, sono stati operativi solo finché gli operai hanno avuto la forza di imporne l’applicazione. Venuta meno tale condizione si è capito come quella “conquista” fosse servita a congelare, istituzionalizzandolo, il processo di democratizzazione delle imprese innescato dalla rivoluzione dei delegati di reparto, per poi decapitarlo in una fase successiva. Insomma: le vere conquiste non derivano dalla legge ma dagli equilibri di potere, solo i lavoratori possono salvare i lavoratori, mentre delegare alla legge (cioè alla politica) la gestione dei loro interessi “significa firmare una cambiale in bianco ai partiti”, gli stessi che li hanno massacrati. 


Eppure nemmeno Balzano può esimersi dall’evocare la legge nella sua forma più alta, vale a dire quegli articoli della nostra Costituzione che trattano del lavoro, per spiegare a quale modello dovrebbero a suo avviso ispirarsi i rapporti fra capitale e lavoro. Un modello al quale, sembra di capire da alcuni passaggi del libro, si sarebbe in qualche modo avvicinato, pur senza realizzarlo, il capitalismo del trentennio postbellico, (un modello capitalistico “che è stato svenduto” scrive). Dopodiché riconosce che quel modello costituzionale appare oggi insostenibile (5), per cui conclude  ammettendo francamente di non essere in grado di proporre  una pars construens, tanto è vero che l’unica affermazione “positiva” che ho trovato nel libro è che ci vorrebbe un sindacato “animato da una visione del lavoro e della società”. Perché piuttosto non un partito radicalmente altro da quelli che giustamente critica, un partito diverso sul piano di principi, valori e modalità di intervento politico e sociale? Evidentemente perché Balzano è a sua volta parte di quella cultura radicalmente antipolitica che caratterizza anche l’ala più onesta e incazzata (tanto da rivendicare il proprio diritto all’odio di classe) di una sinistra occidentale ormai arresasi alle ragioni del verbo liberale. Una cultura che, nel suo caso, assume toni che non esisterei a definire pansincalisti, visione di cui la sua generosa denuncia sconta inevitabilmente i limiti. Vedi laddove scrive che quello del lavoro è  un mercato, non un mercato qualunque ma pur sempre un mercato; ebbene: questo è esattamente il confine al di là del quale nessuna prassi sindacale, anche la più radicale, potrà mai spingersi. Oltre c’è solo il riconoscimento di Marx - ma anche di Polanyi (6) – che la forza lavoro (non il lavoro!) è, al pari della terra e del denaro, una finta merce, e che questa finzione, su cui si fonda l’oppressione e lo sfruttamento delle classi lavoratrici, può essere superata solo da una società socialista, magari “imperfetta”, come quelle di cui mi occupo nel mio ultimo libro (7), ma in cui è comunque la politica a governare sull’economia e non viceversa. 


NOTE 


(1) Savino Balzano ha pubblicato Contro lo smart working (Laterza 2021) e Pretendi il lavoro (GOG Edizioni 2019)


(2)  Parlando delle responsabilità di Berlinguer, Balzano usa il termine "ingenuità", parola decisamente blanda per un leader di sinistra che ha dichiarato di sentirsi protetto dall'ombrello della NATO


(3) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.


(4) Per dirla tutta la cultura dei diritti civili (con il suo corredo di linguaggi "politicamente corretti") inalberata dalle sinistre postmoderne è qualcosa di più e di peggio di un nuovo oppio dei popoli: è l'ideologia ufficiale della sinistra del capitale, come l'ho definita nel mio Guerra e rivoluzione (Meltemi 2023). E i popoli ne sono talmente consapevoli che, quando non si astengono, votano a destra in odio ai partiti che ne professano i valori. 


(5) Posto che il modello di capitalismo cui si riferisce Balzano è, se non sbaglio, quello dell'economia mista che ha caratterizzato il trentennio postbellico nel nostro come in altri Paesi occidentali, inspirato al compromesso keynesiano fra capitale e lavoro, è giusto dire che appare oggi insostenibile, anche se va precisato che è tale per ragioni politiche e non economiche, in quanto politiche che un tempo avremmo definite socialdemocratiche e riformiste oggi potrebbero essere imposte solo con metodi rivoluzionari (tanto è vero che le uniche economie miste nel mare del neoliberismo globale si trovano oggi nei Paesi socialisti di Asia, Africa e America Latina). 


(6) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.


(7) "Elogio dei socialismi imperfetti" è il titolo del secondo volume di Guerra e rivoluzione (Meltemi 2023) in cui analizzo l'esperienza cinese e quelle di alcuni Paesi latinoamericani. 








 

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