Lettori fissi
venerdì 19 marzo 2021
domenica 14 marzo 2021
GLOSSE ALLA “ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE” DI G. LUKACS (I)
Nota introduttiva
L’ultima opera del più grande filosofo marxista del 900 (Gyorgy Lukacs, 1885 – 1971) è di gran lunga la meno conosciuta. Alla Ontologia dell’essere sociale Lukacs iniziò a lavorare nel 1960, subito dopo avere concluso la sua Estetica, ma non fu pubblicata che diversi anni dopo la morte (in due volumi usciti, rispettivamente, nel 1984 e nel 1986). L’edizione italiana (uscita assai più tardi, nel 2012, per i tipi di PGRECO) si articola in quattro volumi, il primo dei quali contiene i Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale che in realtà fu scritto per ultimo, per sintetizzare e chiarire i concetti dell’opera principale (sia perché Lukacs non era soddisfatto della struttura espositiva che le aveva dato, sia per replicare alle critiche e alle osservazioni che gli erano state fatte da alcuni allievi). Questo ritardo non è tuttavia il solo né l’unico motivo per cui il pensiero dell’ultimo Lukacs continua ad essere meno conosciuto di quello dei suoi lavori “classici”, come Storia e coscienza di classe (1) o La Distruzione della ragione (2). A questa “rimozione” contribuirono infatti tanto la sua collocazione in un’epoca storica caratterizzata da una profonda crisi del marxismo, quanto le critiche sfavorevoli che un gruppo degli allievi di Lukacs – fra cui Agnes Heller, oggi nume tutelare del pensiero liberale – fecero circolare sulla Ontologia prima che l’opera venisse pubblicata (3). Senza dimenticare il non trascurabile impegno richiesto dalla lettura di un testo complesso e lungo quasi 2000 pagine.
Nella sua Introduzione, Nicolas Tertulian richiama l’attenzione su alcuni dei temi principali affrontati dall’autore. In particolare, si concentra sulla critica tanto di quelle interpretazioni del pensiero marxiano che attribuiscono alla storia la natura di un processo teleologico governato da una ferrea necessità immanente, per cui ogni fase di sviluppo rappresenterebbe una tappa verso un esito predeterminato, quanto di quelle che lo associano a una sorta di determinismo univoco dei fattori economici. Questa visione determinista/meccanicista, che trova la sua massima espressione nell’ideologia staliniana, per Lukacs affonda le radici nel pensiero dello stesso Engels, sensibile al fascino del “logicismo” hegeliano. Contro questa visione, Lukacs rivendica, da un lato, la necessità di riconoscere il peso dei fattori casuali, dall’altro, riformula il dispositivo della necessità storica in base alla formula se…allora, con la quale intende significare che, al cambiare di certe premesse che si possono dare in modo imprevisto e casuale, il corso dei fenomeni storici può mutare, per cui la razionalità del loro esito non può essere definita a priori – in base a presunte “leggi” – ma solo post festum.
Questo punto di vista gli consente di rappresentare la società come un “complesso di complessi”, dove ogni complesso (il diritto, la politica, la religione, l’arte, ecc.) mantiene una sua relativa autonomia, pur non potendo sottrarsi mai del tutto alla sovradeterminazione da parte della potenza “soverchiante” del complesso economico. I margini di libertà dell’agire umano vengono così ridefiniti in base al detto marxiano (citato molte volte nel testo dell’opera) secondo cui gli esseri umani “non sanno di far ciò ma lo fanno”. Detto altrimenti: i processi sociali vengono messi in atto dagli atti teleologici degli individui, ma la loro risultante finale ha un carattere causale privo di connotazioni finalistiche, il risultato delle azioni non è cioè mai coestensivo alle intenzioni.
Sorvolando su altri temi evidenziati dalla Introduzione di Tertulian – come le critiche al neopositivismo e all’esistenzialismo, o le pagine dedicate al superamento dell’estraniazione e al comunismo come realizzazione di una humanitas autentica – provo a spiegare perché ho deciso di imbarcarmi in questo impegnativo commentario alla Ontologia dell’essere sociale. In effetti, la lettura di quest’opera mi ha ridato fiducia nella possibilità di restituire al marxismo la sua carica rivoluzionaria, a condizione che lo si liberi, sia dalle varianti dogmatiche che ne hanno imbrigliato l’energia, sia dalle nebbie di molte interpretazioni “innovative”. Dal testo che segue non dovete aspettarvi dissertazioni accademiche né raffinatezze filologiche (del resto non ne sarei all’altezza), bensì lo sforzo di “estrarre” da alcuni dei passaggi che mi hanno più intrigato durante la lettura dei quattro volumi dell’opera, una serie di riflessioni relative alle grandi sfide di fronte alle quali ci pone la realtà contemporanea. Il testo è strutturato in cinque sezioni: 1. Il lavoro come modello di ogni prassi sociale; 2. Critica del materialismo meccanicista; 3) Se…allora (storia e necessità); 4) Ideologia e lotta di classe; 5) Libertà, utopia, socialismo. La prima è la più breve, la seconda e la terza sono accorpate in un unico capitolo, la quarta è la quinta sono le più lunghe, in quanto più gravide di implicazioni politiche. Quindi a questa prima puntata, ne seguiranno altre tre in tutto.
PS. Reitero un’avvertenza già fatta in post precedenti: non essendo riuscito a impadronirmi pienamente delle funzioni di formattazione di questa piattaforma, molte traslitterazioni di nomi stranieri ( a partire da quello di Gyorgy Lukacs) risulteranno scorrete. Me ne scuso con i lettori.
1. Il lavoro come modello di ogni prassi sociale
I tentativi di depurare il pensiero di Marx dai suoi fondamenti filosofico – antropologici, per estrarne il presunto contenuto “scientifico” (sulla scientificità del marxismo avremo modo di ragionare più avanti) - contenuto che viene in questo modo ridotto alla descrizione delle modalità di funzionamento del modo di produzione capitalistico e dei meccanismi causali delle crisi economiche – sono del tutto incompatibili con l’approccio di Lukacs all’opera del maestro. Il contributo di Marx alla comprensione del fenomeno sociale, sostiene Lukacs, può essere compreso solo se si capisce che, per lui, il lavoro è “la categoria centrale in cui tutte le altre determinazioni si presentano in nuce”. E il lavoro di cui parla qui Lukacs non si identifica con la forma storicamente determinata che esso assume nella società capitalistica: è piuttosto il lavoro utile, il lavoro come formatore di valori d’uso che, scrive Marx citato da Lukacs, è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini (vol. II, p. 265).
Per Marx, sostiene dunque Lukacs, il lavoro non è una delle tante forme fenomeniche della teleologia (cioè dell’agire finalistico) in generale, ma l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale (vol. III, p. 23). Il ricambio organico fra uomo e natura differisce da quello delle altre specie viventi in quanto non è governato dall’istinto, ma dalla posizione consapevole dello scopo, ed è appunto per questa via che l’agire finalistico entra a far parte della realtà materiale, perdendo l’aura di fenomeno trascendente, ideale. È in questo senso, argomenta Lukacs, che si può affermare che, per Marx, il lavoro risulta il modello di ogni prassi sociale (vol. III, p. 19). Ed è in base a questo assunto che la definizione del pensiero marxiano come “filosofia della prassi” assume il suo significato più corretto e rigoroso.
La critica di Marx al materialismo feuerbachiano consiste precisamente nell’essersi limitato alla mera intuizione, evitando di scendere sul terreno della prassi. La critica di Marx all’idealismo è invece una critica ontologica, in quanto parte dal principio che l’essere sociale, in quanto adattamento attivo dell’uomo al proprio ambiente, poggia primariamente e insopprimibilmente sulla prassi (vol. I, p. 36). Lukacs torna su questa visione concreto-ontica delle entità sociali ragionando sui Manoscritti economico-filosofici, a proposito dei quali scrive che in essi per la prima volta nella storia della filosofia le categorie dell’economia compaiono come quelle della produzione e riproduzione della vita umana e rendono così possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica, per aggiungere subito dopo ma la economia come centro dell’ontologia marxiana non significa affatto che la sua immagine del mondo sia fondata sull’<<economismo>> (vol. II, p. 264).
L’ultima affermazione (della quale è impossibile sopravalutare l’importanza, e sulla quale dovremo ritornare a più riprese nelle sezioni successive), trova riscontro in un passaggio in cui Lukacs sottolinea che considerando così isolatamente il lavoro si compie un’astrazione, infatti la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono bensì dal lavoro, non però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente (vol. III, p. 14). Tutte le categorie appena evocate appaiono dunque avvinte in un intreccio inestricabile, per cui nessuna di esse può essere realmente compresa ove la si consideri isolata dalle altre. Al tempo stesso, non vanno dimenticati, da un lato, la loro scaturigine originaria dal lavoro, dall’altro lato, che il fatto che il lavoro continui a essere il momento soverchiante non solo non sopprime queste interazioni ma al contrario le rafforza e le intensifica (vol. III, p. 58).
Quest’ultimo passaggio consente di chiarire meglio e approfondire quanto richiamato in precedenza in relazione al concetto del lavoro come unico momento che attribuisce concretezza ontologica al porre teleologico. Lo stesso dicasi di quest’altra citazione: Solamente nel lavoro, quando pone il fine e i suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente, - dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano la natura – ma invece un compiere trasformazioni nella natura stessa che a partire di qui, dalla natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili e (a partire da questo momento, la coscienza) non può più essere ontologicamente un epifenomeno. Ed è questa constatazione che separa il materialismo dialettico da quello meccanicistico (Vol. III, p. 35).
Dando per acquisite le argomentazioni che ho appena sinteticamente evocato, Lukacs procede a descrivere le relazioni dialettiche fra il lavoro da un lato, e il suo fine e il suo mezzo dall’altro: In ogni singolo processo lavorativo concreto il fine domina e regola i mezzi. Se però guardiamo ai processi lavorativi nella loro continuità ed evoluzione storica entro i complessi reali dell’essere sociale, abbiamo una certa inversione di questo rapporto gerarchico, che se non è certamente assoluta e totale, è purtuttavia di estrema importanza per lo sviluppo della società e dell’umanità (vol. III, p. 29). In questo accenno all’inversione gerarchica fra fini e mezzi sono contenuti in nuce tutti i discorsi sull’alienazione e sull’ambiente tecnologico come “seconda natura” (per inciso Lukacs non ama quest’ultimo concetto che, a suo avviso, ha valore meramente metaforico). L’ipertrofica valorizzazione del mezzo è conseguenza del fatto che la ricerca sulla natura, indispensabile per lavorare, è prima di tutto concentrata intorno alla preparazione dei mezzi, sono questi il principale veicolo della garanzia sociale che i risultati dei processi lavorativi rimangano fissati, che vi sia continuità nell’esperienza lavorativa e specialmente che si abbia un suo ulteriore sviluppo (Ivi).
Di grande interesse mi pare inoltre: 1) il fatto che Lukacs non rappresenta questi sviluppi come esclusivi delle fasi più avanzate dell’evoluzione dell’essere sociale, ma li considera già presenti delle sue fasi primitive; 2) il fatto che ogni ulteriore avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza, mentre influisce profondamente sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, non ne neutralizza mai la sovradeterminazione da parte del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura. Vediamo: L’uomo che lavora deve pianificare in anticipo ciascuno dei suoi movimenti e controllare di continuo criticamente, consapevolmente la realizzazione del suo piano, se nel suo lavoro vuole ottenere quel che è in concreto l’ottimo possibile. Questo dominio della coscienza l’uomo sul proprio corpo, che si estende anche a una parte della sfera della coscienza, alle abitudini, agli istinti, agli affetti, è una richiesta elementare dello stesso lavoro più primitivo, non può quindi non marcare a fondo le rappresentazioni che l’uomo si fa su se stesso (vol. III, p. 104). Ma se occorre ammettere che la posizione teleologica di causalità nel processo lavorativo produce questi radicali effetti trasformatori, va anche ricordato che per quanto rilevanti siano questi ultimi, la barriera naturale può solo arretrare, mai scomparire completamente (vol. III, p. 103). Infine, la posizione dei fini - mediata dal progredire della coscienza e del linguaggio, che operano come fattori di separazione e distacco dell’uomo dal suo ambiente, di una presa di distanza che si manifesta con chiarezza nel fronteggiarsi di soggetto e oggetto (vol. III, p. 38) – impone continue scelte fra alternative che, tuttavia, non sono prodotte dal soggetto che decide, ma dall’essere sociale in cui vive e opera (vol. III, p. 48).
Gyorgy Lukacs |
Glosse
1) Ribadire la centralità del lavoro come ricambio organico uomo–natura, cioè del lavoro creatore dei valori d’uso, in quanto fondamento di ogni visione materialistica dell’essere sociale è una scelta che comporta conseguenze impegnative sotto diversi aspetti filosofici, politici e ideologici. In primo luogo, significa riconoscere implicitamente la eccezionalità della società capitalistica rispetto a tutte le forme sociali che l’hanno preceduta (e presumibilmente a tutte quelle che la seguiranno) nella misura in cui è l’unica che occulta tale fondamento concreto-ontico del lavoro per ridurlo, da un lato, a merce forza-lavoro, dall’altro a fonte del valore di scambio, cioè a valore-lavoro incorporato nelle merci da realizzare tramite scambio sul mercato (4).
Rimuovere questa premessa filosofica è stata una mossa comune a tutte quelle interpretazioni del pensiero marxiano – da Althusser a Negri, per citarne solo un paio – che hanno teso a svalorizzarne gli elementi “metafisici” (generalmente associati alle opere giovanili e contrapposti al pensiero “maturo” del Capitale e dei Grundrisse) e ad esaltare la “scientificità” delle categorie della critica dell’economia politica. La riduzione del contributo di Marx alla modellizzazione concettuale del modo di produzione capitalistico ha avuto, fra le altre conseguenze, quella di fondare ogni speranza emancipativa del lavoro – inteso esclusivamente come forza-lavoro integrata nel processo di valorizzazione del capitale – sulle contraddizioni immanenti al modo di produzione. Di qui la valutazione del ruolo progressivo della riduzione di tutte le relazioni sociali a relazioni di mercato, in quanto presupposto necessario del rovesciamento dei rapporti di forza fra lavoro e capitale (in sostanza, l’idea è che solo quando tutto sarà interno al rapporto di capitale sarà possibile rovesciare quest’ultimo).
L’elenco delle conseguenze di tale postura teorica è lungo. Mi limito ad elencare quelle che ritengo particolarmente perniciose. L’invenzione di categorie spurie come quella di “lavoro immateriale” (5) (riferita, in particolare, all’attività dei lavoratori dell’economia digitale, con la paradossale rimozione, da un lato, del lavoro materiale dei milioni di lavoratori dell’industria della componentistica hardware e di quelli delle industrie estrattive delle materie prime indispensabili per tali attività, dall’altro, del lavoro corporeo degli stessi lavoratori presunti immateriali). Le varie declinazioni ideologiche del cosiddetto “rifiuto del lavoro” (6) che, dall’originario significato di rivolta operaia contro il lavoro alienato e ripetitivo, sono venute estendendosi fino ad affermare la possibilità (garantita dall’enorme sviluppo delle forze produttive) di trascendere la necessità stessa del ricambio organico uomo-natura. Corollari di questa negazione del principio enucleato da Lukacs e richiamato in precedenza (per quanto radicali siano le trasformazioni indotte dal distanziamento progressivo fra soggetto e oggetto, “la barriera naturale può solo arretrare ma mai sparire completamente”) – sono tanto la mitologizzazione dell’illimitata potenza trasformativa delle conoscenze scientifiche e tecnologiche (fino al trascendimento delle stesse caratteristiche della specie verso forme di vita “transumane”), quanto la condivisione, da parte di alcuni intellettuali appartenenti alle sinistre “radicali”, degli slogan dei boss dell’industria high tech, i quali propongono di risolvere i problemi occupazionali generati dalla “fine del lavoro” (7) attraverso l’erogazione di un reddito universale non condizionato dallo svolgimento di attività lavorative – punto di vista che confonde emancipazione del lavoro ed emancipazione dal lavoro, per cui quest’ultima si presenta come apologia del consumo (8), ignorando sia il ruolo del lavoro come autorealizzazione e costruzione identitaria individuali e collettive, sia la necessità di liberare il valore d’uso dalle distorsioni causate dalla sua riduzione a valore di scambio.
2) Gli spunti critici relativi all’economismo e al materialismo meccanicistico, contenuti nelle citazioni precedenti, verranno trattati, rispettivamente nelle sezioni 2) e 3). Quanto a quelli relativi alle autorappresentazioni che gli esseri umani sviluppano parallelamente al crescere della complessità dell’essere sociale, verranno trattati nelle sezioni 4) e 5). Restando in tema di complessità, osservo inoltre che la rappresentazione dell’essere sociale come “complesso di complessi” (vedi sopra “Nota introduttiva”) ognuno dei quali dotato di reciproca autonomia, ma al tempo stesso vincolato dalle relazioni di interdipendenza reciproca con tutti gli altri, presenta significative analogie con la rappresentazione del sociale come sistema complesso articolato in sottosistemi, proposta da un autore come Niklas Luhmann (9), con la differenza che, in Lukacs, i complessi non si dispongono secondo un piano orizzontale privo di relazioni gerarchiche ma appaiono sovradeterminati (ancorché in modo indiretto e non meccanico) dal complesso economico.
3) Anche i passaggi sull’inversione del rapporto gerarchico fra fini e mezzi del processo lavorativo – che, come si è visto, secondo Lukacs, è una tendenza presente fin dalle fasi più primitive dello sviluppo sociale, ma assume importanza crescente in quelle più recenti e progredite – verranno ripresi e approfonditi nelle ultime due sezioni. Qui mi limito ad affermare che il modo in cui Lukacs affronta il tema mi pare presenti una certa analogia con il concetto di alienazione tecnologica sviluppato dai membri della Scuola di Francoforte e altri autori a lui contemporanei. L’approccio di Lukacs, tuttavia, non è mai “catastrofista” - alla Gunther Anders (10) per intenderci -, nel senso che la sua critica nei confronti del feticismo della tecnica non approda mai alla negazione assoluta del potenziale emancipativo di quest’ultima. Al tempo stesso, non rinuncia mai a evidenziare la relazione fra sviluppo tecnologico e rapporti di forza fra le classi sociali, né scade mai nelle forme di esaltazione acritica dello sviluppo delle forze produttive tipico sia del materialismo meccanicista, sia dell’ideologia “accelerazionista” di alcune correnti contemporanee di sinistra radicale (11).
Note
(1) G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, Tasco, Milano 1997.
(2) G. Lukacs, La distruzione della ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011.
(3) Ricavo questa e altre informazioni riportate in questa Nota introduttiva dalla Introduzione di N. Tertulian a G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), PGRECO, Milano 2012.
(4) Sul capitalismo come forma sociale sui generis, diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta, cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
(5) Vedi, in particolare, A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
(6) Lo slogan del rifiuto del lavoro è uno dei leitmotiv dell’ideologia operaista e post operaista dagli anni Settanta ai giorni nostri.
(7) Cfr. J. Rifkin, La fine del lavoro, Mondadori, Milano 2002. In anni recenti anni il tema non è più di moda, anche perché la realtà ha dimostrato che tale tendenza è letteralmente inesistente a livello globale – il lavoro salariato è cresciuto a livelli esponenziali su scala mondiale nei primi decenni del Duemila – e meno significativo del previsto anche nei Paesi occidentali più sviluppati, dove si assiste piuttosto alla proliferazione dei lavori precari, saltuari e sottopagati, e dove anche il fenomeno della cosiddetta deindustrializzazione è contestato (vedi in proposito le critiche di David Harvey in The Anti-capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020).
(8) Evidenti elementi di apologia del consumo (intesa come rivendicazione di elevati livelli di consumo a prescindere dall’utilità e/o dalla nocività dei beni e servizi consumati, nonché dalla loro rispondenza a effettivi bisogni individuali e collettivi) sono riscontrabili sia nell’ideologia dei movimenti di ispirazione operaista e postoperaista, sia nelle filosofie “desideranti” di autori come Gilles Deleuze e Felix Guattari (cfr. in merito le critiche di P. Dardot e C. Laval ne La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2013), sia infine nelle “teorie dei bisogni” in auge negli anni Settanta/Ottanta (vedi A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli, Milano 1977).
(9) Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979; vedi anche Illuminismo sociologico, il Saggiatore, Milano 1983 e Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983.
(10) Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 1956.
(11) Cfr. A. Williams, R. Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza, Roma-Bari 2018.
martedì 9 marzo 2021
DAL SOCIALISMO REALE AL SOCIALISMO POSSIBILE
APPUNTI SUL SOCIALISMO DEL SECOLO XXI
Anticipo il mio contributo al libro di autori vari "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro" che sarà in libreria fra due giorni per i tipi di Meltemi
I. Un eventuale socialismo del secolo XXI non somiglierà alle utopie otto/novecentesche
Nessun nuovo progetto di trasformazione del mondo in senso socialista sarà praticabile senza tagliare i “rami secchi” che appesantiscono il tronco della cultura marxista (1). In particolare:
1. Va ripudiata la metafisica della storia che ritiene la transizione dal capitalismo al socialismo un’ineluttabile “necessità”. Al dogma secondo cui il capitalismo, dal momento che produce il suo “affossatore” – cioè il proletariato – sarebbe gravido di una nuova formazione economico-sociale, va sostituito l’auspicio che, date certe condizioni, l’affossatore potrà forse svolgere tale funzione, ma ciò non è scontato: in un modo o nell’altro il capitalismo certamente finirà, ma l’autodistruzione della società non è meno possibile della nascita di una società migliore.
2. Anche l’identità dell’affossatore andrebbe ridefinita. La cultura marxista non si è mai seriamente impegnata in tal senso: il Soggetto rivoluzionario è sempre stato assunto come un dato apriori, mai sottoposto a verifiche empiriche. Lo stesso Marx, descrivendo il capitale-automa rispetto al quale gli operai sono ridotti a organi viventi, lascia chiaramente intendere che la “classe in sé” non è in grado di emanciparsi dalla condizione di forza lavoro, di capitale variabile incorporato nel capitale al pari delle macchine, dei metodi e delle tecniche organizzative. Dunque, se non si colma il vuoto di analisi empirica di cui sopra, e se non si aggiornano le idee di Lenin e Gramsci sul partito rivoluzionario, non si va da nessuna parte.
3. L’ottimismo delle sinistre in merito al ruolo emancipativo della tecnica – delle forze produttive – è debitore dell’illuminismo borghese e va abbandonato senza esitazione. Il fatto che questa visione, in cui convergono modernismo, progressismo e “nuovismo”, sia stata assunta come un potente fattore di legittimazione simbolica del modo di produzione capitalistico, ha contribuito a far sì gli interessi delle classi subalterne siano stati sistematicamente sacrificati sull’altare di un Progresso elevato a divinità.
4. Infine va liquidato il mito del comunismo come “paradiso in terra”, come un mondo libero da conflitti economici, sociali, politici e culturali. Lo slogan “a ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, prospetta un futuro in cui la politica si dissolverà in amministrazione delle cose, piace alle sinistre postmoderne ma dovrebbe suscitare una sana diffidenza in chi non crede alla possibilità di ricomporre tutti i conflitti fra interessi collettivi. Si tratta di un’utopia che rasenta i principi e i valori dell’individualismo liberale, rischiando di proiettare sull’annuncio marxiano della “fine della storia” l’ombra di Fukuyama, e legittimando le perniciose profezie sull’estinzione dello Stato. Lenin ridicolizzò quei “sinistri” che ne chiedevano l’immediata messa in pratica, tacciandoli di ascetismo universalista e rozzo egualitarismo, e ai quali replicava che l’obiettivo prioritario del regime sovietico non era collettivizzare la miseria ma porre rimedio alla fame (ne riparleremo a proposito dell’esperienza cinese). Per concludere: le pretese in merito alle caratteristiche di un eventuale socialismo del secolo XXI vanno abbassate, sposando la tesi di Samir Amin, il quale afferma in più occasioni (2) che forse il comunismo consentirà alla società di liberarsi dell’alienazione economicista sulla quale si fonda la riproduzione del sistema capitalista, ma non delle alienazioni antropologiche.
II. Il liberalismo è il nemico mortale del socialismo del secolo XXI
Liberalismo e socialismo sono incompatibili, né può esistere un “socialismo liberale” per almeno quattro ragioni: 1) per l’ideologia liberale la società non esiste, esistono solo individui in competizione reciproca; 2) i diritti partoriti dalla cultura liberale sono gerarchicamente ordinati secondo una piramide che ha come vertice la proprietà privata in quanto principio inviolabile che sovradetermina e subordina a sé tutti gli altri; 3) il tardo capitalismo ha provocato il divorzio fra liberalismo e democrazia, liquidando l’illusione di poter compiere “una lunga marcia dentro le istituzioni democratiche” verso il socialismo; 4) nemmeno la (presunta) minaccia di rigurgiti fascisti giustifica – a differenza di quanto avvenne in passato – un’alleanza fra liberali e social comunisti.
1. Una cultura socialista che rifiuta a priori l’idea che possa esistere un individuo al di fuori delle relazioni sociali che lo costituiscono, che antepone le esigenze e gli interessi della comunità a quelli dei singoli, che pensa che i diritti della proprietà privata vengano dopo quelli del bene comune, non ha alcunché da spartire con una cultura liberale fondata sul connubio fra individualismo e pessimismo antropologico, che ha sostituito l’aristotelico “animale politico” con l’hobbesiano “homo homini lupus”, che pensa, come Margaret Tatcher, che non esista società ma solo individui, che ritiene che il benessere comune sia l’effetto collaterale dell’interazione spontanea fra individui auto interessati, che concepisce lo Stato come altro rispetto al cittadino, un altro più o meno brutale, più o meno strutturato, ma che, in ogni caso, ha l’unico compito di tutelare lo spazio delle libertà naturali dell’individuo, per cui ha sempre inteso limitarne il potere, fino a porne in dubbio la stessa necessità (3).
2. Che “diritti” possono aspettarsi le classi subalterne da un sistema giuridico la cui logica è omologa a quella del mercato? Una logica che impone di distruggere ogni comunità umana fondata su un sistema di valori che ne rallenti o impedisca l’ingresso nella modernità borghese, o che non comporti il rispetto della proprietà privata e dei “diritti dell’uomo” (pretesto di micidiali “guerre umanitarie”). Una visione che non ha alcunché di universale, visto che evoca solo il rispetto degli individui senza accennare a quello per le differenze culturali, e in cui risuona sinistramente l’eco di quel “fardello dell’uomo bianco” che legittimò i crimini dell’imperialismo occidentale. Di più: la logica del mercato, nella misura in cui non riconosce alcun limite morale o naturale, finisce per sovvertire lo stesso diritto borghese, dal momento che la sua neutralità assiologica, associata a una concezione procedurale, proponendosi di fare a meno di qualsiasi fondazione morale o religiosa, funziona come un acido corrosivo che agisce dall’interno (4). Se nulla si può obiettare alla continua introduzione di nuovi diritti, al “diritto di avere diritti” (5), il diritto diviene infatti indistinguibile dal desiderio, alimentando la rincorsa postmoderna al “riconoscimento” da parte di gruppi e minoranze di ogni genere, mentre sbarra la strada ai diritti sociali, incompatibili con gli interessi della madre di tutti i diritti, il diritto di proprietà privata.
3. E’ almeno possibile trovare un punto d’incontro fra socialismo e liberalismo nella comune accettazione dei principi della democrazia? Dopo tutto, il regime “liberal democratico” non è il dono di un felice compromesso fra le due ideologie e le classi sociali che esse rappresentano? Del resto il movimento operaio si è a lungo auto rappresentato come il prolungamento della rivoluzione del 1789 e, al tempo stesso, come il superamento dei limiti della democrazia borghese che essa aveva instaurato. Bastava risolvere la contraddizione associata a un ideale di libertà inteso in senso meramente formale e individualistico, per cui impediva la piena attuazione dei principi di uguaglianza e fraternità. Persino Marx nutrì qualche speranza nel fatto che l’introduzione del suffragio universale potesse limitare, se non scalzare, il potere del capitale. Invece, sebbene le lotte operaie abbiano indubbiamente ottenuto l’allargamento di molti diritti, inclusi taluni diritti sociali, questi progressi democratici non si sono inseriti in una prospettiva di transizione al socialismo, ma hanno rafforzato la democrazia borghese in ciò che ha di più essenziale: l’obbligo assoluto di rispettare la linea rossa del diritto di proprietà. Oggi certe illusioni non sono più possibili, dopo che le democrazie europee (incastrate nella gabbia ordoliberista della Ue) si sono americanizzate, appiattendosi su un modello fondato sulla formula democrazia elettorale rappresentativa pluripartitica, quella che Crouch chiama “democrazia reale” o post democrazia (6). Un modello che oggi impone agli Stati nati dalla lotta contro il fascismo, come l’Italia, di depurare le loro costituzioni da ogni velleità “sociale”. Il virus liberale ha ucciso questi residui di democrazia intesa come sovranità popolare mentre impone una cultura politica fondata sulla cancellazione della realtà delle classi sociali e delle nazioni, e proclama l’individuo come l’unico soggetto della storia.
4. Ma se liberalismo e democrazia hanno divorziato (7), non ha senso stringere alleanze con i liberali per difendere la democrazia dal fascismo. In primo luogo, perché all’orizzonte non si profila un “ritorno” del fascismo, che nelle sue forme storiche è morto e sepolto, ma l’avanzata di formazioni populiste di destra, certamente da contrastare e combattere, ma senza cadere nella trappola dell’antifascismo senza fascismi escogitata dal liberalismo, il quale, a mano a mano che la crisi ne svela il volto antipopolare, necessita “di una serie di ideologie di legittimazione etica integrativa”, la principale delle quali è appunto l’esaltazione degli “immortali valori dell’antifascismo”. Le sinistre postmoderne abboccano perché, sulla scia di autori come Foucault e Deleuze, hanno adottato un concetto di fascismo che non rinvia tanto al fascismo storico, quanto al “fascismo che è in tutti noi”, identificabile con il persistere di vincoli morali ereditati dal passato che sarebbero il vero nemico di battere (ricordate lo slogan “vietato vietare”?). Così le sinistre “liberal” si sono ritrovate, a poco a poco e quasi senza rendersene conto, schierate al fianco di Stati Uniti ed Europa nella guerra fredda contro tutti i regimi che ancora si definiscono socialisti e contro i Paesi “totalitari” che rifiutano la colonizzazione da parte dei principi e dei valori occidentali.
III. Chi farà e dove si farà, se si farà, la rivoluzione socialista del secolo XXI?
Volendo partire dal dove è difficile ignorare un dato di fatto: ad oggi tutte le rivoluzioni socialiste non sono state rivoluzioni proletarie in senso stretto, né hanno interessato nazioni industrialmente avanzate. Si è trattato, per citare Gramsci, di “rivoluzioni contro il Capitale”, nel senso che, contrariamente alle previsioni di Marx, non sono avvenute nei punti più alti di sviluppo delle forze produttive bensì in Paesi “arretrati”, nelle periferie e semiperiferie del mondo, né hanno avuto come protagonista principale il proletariato industriale bensì le masse contadine, alleate con classi operaie in via di formazione e strati di piccola borghesia urbana. Di più: in tutti questi casi, la presenza di culture tradizionali, precapitaliste, non ha agito da freno ma è stato uno dei motori più efficaci della rivolta anticapitalista. Il che ha indotto alcuni marxisti latinoamericani (8) a criticare la concezione tradizionale del Soggetto rivoluzionario, a partire dalla constatazione che le rivoluzioni bolivariane hanno potuto contare sulle comunità originarie degli indios più che sul proletariato industriale, e non solo sul piano della mobilitazione ma anche su quello della elaborazione di modelli alternativi di civiltà (vedi il concetto di buen vivir elaborato dalla comunità andine).
Il presidente socialista Luis Arce festeggia la vittoria |
Tutto questo per dire che la lotta di classe non si presenta quasi mai allo stato puro, non coinvolge solo soggetti “oggettivamente” antagonisti, ma ha forme molteplici che includono sia lo scontro fra lavoro e capitale nel luogo di produzione, sia quello per la liberazione delle varie forme di oppressione presenti nel mondo. Il che suggerisce la necessità di spostare l’attenzione sul conflitto fra centri e periferie del mondo, cogliendo l’intreccio fra contrasti di classe e contrasti fra popoli e nazioni, un compito cui ha validamente contribuito la “banda dei quattro” (Immanuel Wallerstein, Gunder Frank, Giovanni Arrighi e Samir Amin) i quali hanno a lungo ragionato di sviluppo del sottosviluppo e di sistema mondo (9). Costoro, mentre il marxismo storico ha sempre avuto la tendenza a ridurre il sistema mondiale a giustapposizione fra formazioni capitalistiche, anche se sviluppate in maniera ineguale, hanno descritto il mondo come un insieme di centri e periferie reciprocamente indissociabili.
L’ultimo ad abbandonare tale visione è stato Samir Amin. Costui, criticando la tesi secondo cui, a partire dagli anni Settanta, la vecchia opposizione fra Paesi imperialisti e Paesi coloniali o semicoloniali avrebbe lasciato il posto all’opposizione capitale/lavoro su scala globale, ha dimostrato che la maggior parte delle periferie sono diventate industriali senza cessare di essere periferiche, e che esse, pur essendo integrate nel sistema capitalistico, restano inchiodate al sottosviluppo. Questo perché i cinque monopoli (sui flussi finanziari, sulle tecnologie avanzate, sui mezzi di comunicazione, sulle risorse naturali strategiche, sulle armi di distruzione di massa) di cui usufruiscono Stati Uniti, Europa e Giappone garantiscono ai detentori rendite parassitarie laddove inchiodano gli altri Paesi alla condizione di “subappaltatori”. A mediare questa relazione di dominio dei centri sulle periferie sono quelle borghesie nazionali che si sono convertite in mafie che gestiscono gli interessi del capitale straniero.
Questo vuol dire che nei centri, nella misura in cui possono offrire alle loro classi subalterne privilegi fondati su una sorta di social imperialismo, non si dà più contraddizione antagonista fra capitale e lavoro? Che i poveri del mondo occidentale si sono fatti cooptare dal socialismo imperiale? Che il proletariato industriale si è ridotto sino a sparire a causa dei processi di decentramento produttivo? Il primo a smentire questa tesi è proprio Samir Amin il quale afferma che questo “addio al proletariato” è frutto di una semplificazione eurocentrica, economicista e operaista che ha ridotto la classe al frammento costituito dagli operai della grande industria. Ma anche David Harvey (10) critica questo punto di vista, a partire dal concetto di “deindustrializzazione”: se è vero che i nuovi operai si trovano quasi tutti in Cina e in altri Paesi in via di sviluppo, e che in Europa e negli Stati Uniti la percentuale della forza lavoro impiegata nelle varie categorie del terziario è cresciuta a dismisura, ciò non vuol dire che non esiste più una classe lavoratrice, ma che oggi i lavoratori, invece delle automobili, producono hamburger nei McDonalds, lavorano nella logistica, nelle catene di ristoranti, nei settore turistico, nella gig economy, ecc. Queste sono a tutti gli effetti industrie capitalistiche, dato che generano plusvalore e profitti per il capitale.
Il concetto di classe lavoratrice mantiene dunque il suo valore. Ma a condizione di superare il punto di vista di chi concepisce l’antagonismo di classe come un elemento immanente ai rapporti sociali di produzione, di chi vede nel proletariato il Soggetto ontologico della rivoluzione. La realtà di una classe operaia incapace di elevarsi al di sopra dello stato di capitale variabile ha indotto Lenin a elaborare la teoria del partito rivoluzionario come entità al tempo stesso interna ed esterna al proletariato, interna in quanto capace di condividerne l’esperienza quotidiana e di selezionarne ed educarne i membri più consapevoli, esterna in quanto solo da un’organizzazione di quadri capaci di interpretare la società e il sistema di potere in tutte le sue articolazioni possono scaturire una strategia e una tattica in grado di sconfiggere il nemico di classe.
Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso le sinistre operaiste contestarono la concezione leninista del partito elaborando il concetto di composizione di classe, grazie al quale rilanciarono la visione immanentista di una classe operaia antagonista “per natura”, indotta dalle sue stesse condizioni di vita e di lavoro a rifiutare il sistema capitalista. Non più la classe operaia nel suo insieme, ma l’operaio massa, l’operaio unskilled inchiodato alla catena di montaggio, venne chiamato a interpretare il ruolo di nuovo Soggetto rivoluzionario, il quale non aveva più bisogno di attingere a una coscienza politica portatagli dall’esterno, non aveva bisogno del partito perché lui stesso era il partito (11). Schema che si è ripresentato nell’ultimo decennio del Novecento, quando la rivoluzione digitale ha fatto emergere un nuovo strato sociale, i knowledge workers, la cui tendenza a condividere conoscenze e a generare forme di cooperazione produttiva autonome e alternative, venne interpretata come una conferma della profezia dei Grundrisse, laddove Marx evoca il momento in cui lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale attinge livelli tali da generare l’estinzione spontanea delle leggi dell’economia capitalista (12). Sappiamo la fine cui questa nuova illusione è andata incontro dopo la colonizzazione di Internet da parte di un pugno di imprese monopolistiche.
Ma se siamo di fronte a un proletariato mondiale disperso in una miriade di frammenti nessuno dei quali può aspirare a svolgere il ruolo di avanguardia rivoluzionaria, chi potrà fare la rivoluzione? Decenni di neoliberismo hanno tracciato un solco profondo fra una minoranza di super ricchi e una maggioranza di poveri e poverissimi, ma la povertà è un attributo troppo vago per definire il tipo di soggettività che ci interessa. Un primo criterio più rigoroso consiste nel distinguere fra chi vive prevalentemente del proprio lavoro e chi vive di rendita (anche se dai primi vanno esclusi sia quegli strati superiori che organizzano il lavoro altrui, sia coloro che si occupano dell’organizzazione di capitali da investire). Un secondo confine separa chi, grazie alla posizione geografica privilegiata o alla superiore mobilità, è in grado di determinare da sé il proprio valore, e chi, o perché catturato in condizioni di scarsa mobilità in aree periferiche a minore densità di valore, o perché pressato dalla competizione, è deprivato di fonti di potere individuali e di gruppo ed è quindi costretto ad accettare la determinazione di valore impostagli da chi controlla il mercato. Questa distinzione è scalabile ai vari livelli della divisione del lavoro internazionale (rapporto tra “metropoli” e “periferie”), nazionale (aree ricche, dense e connesse versus aree povere, diradate e isolate), territoriale (città/campagna), sociale (dominanti/subalterni). L’opposizione fra metropoli e periferie si manifesta attraverso i processi di gentrificazione che hanno espulso dalle grandi città le classi subalterne. Le grandi città sono diventate una merce riservata ai ricchi, anche se negli interstizi delle metropoli sopravvive un nuovo proletariato di addetti ai servizi alle persone, in cui si mescolano lavoratori precari autoctoni e immigrati. Per concludere: le differenze di classe non si misurano solo attraverso le diversità di reddito, ma anche attraverso i processi di marginalizzazione culturale e geografica (13).
Come ricomporre questo insieme di frammenti che costituiscono il proletariato globale e che rappresentano la potenziale base sociale (da non confondere con la base elettorale!) di un progetto socialista? Diversi autori tentano di risolvere il problema riformulando il concetto di popolo. Così Michéa (14) oppone al paradigma marxista della classe rivoluzionaria l’idea di un “popolo” da riunire attorno a un programma comune di uscita del capitalismo attraverso l’elaborazione di un linguaggio comprensibile e accettabile tanto dai lavoratori salariati quanto dai lavoratori autonomi, dai dipendenti statali come dai privati, dagli autoctoni come dagli immigrati. In poche parole: da tutti i perdenti della mondializzazione liberale. Sul tema del linguaggio insiste ancora più decisamente il filosofo argentino Ernesto Laclau (15). Il “momento populista” che secondo questo autore stiamo vivendo, è il frutto della crisi dei regimi liberal democratici e della loro incapacità di dare risposta alle diverse rivendicazioni che salgono dal basso. Fra queste rivendicazioni inappagate si forma una “catena equivalenziale” che incarna una domanda di democrazia radicale che la società rivolge ai sistemi politici tradizionali, dai quali non si sente più rappresentata. È così che nasce un popolo in grado di sfidare l’attuale sistema di potere. Tuttavia, se Laclau ha il merito di riconoscere che il popolo non è un’entità metafisica preordinata (basata su sangue, suolo e tradizioni per le ideologie di destra) bensì una costruzione politica, dall’altro lato le sue teorie hanno il limite di inquadrare questa costruzione in una cornice puramente simbolico-discorsiva, che prescinde da qualsiasi riferimento ai conflitti di classe. Al contrario, chi scrive è convinto che il concetto di popolo possa aiutare a elaborare strategie utili per una convergenza socialista solo a condizione che lo si rivisti alla luce delle categorie gramsciane di egemonia e di blocco sociale (16). Ma reinterpretare Gramsci impone in primo luogo di non concepire il blocco sociale come sommatoria di interessi fra diversi strati di classe senza ordinarli gerarchicamente (senza stabilire, cioè, a quali di essi debba spettare l’egemonia).
Nelle attuali condizioni, costruire un blocco sociale attorno a cui aggregare un progetto socialista, significa in primo luogo ri-costruire l’unità fra quei frammenti di proletariato di cui ragionavamo pocanzi. Il problema delle alleanze viene dopo e richiede la massima prudenza nell’identificare quali strati di classe media siano integrabili nel blocco e quali appartengano al campo avversario. Tornando alla distinzione lavoro/rendita suggerita in precedenza, ad esempio, va ricordato che, anche in conseguenza dell’arricchimento relativo delle classi medie negli anni del trentennio dorato, una quota non marginale di coloro che vivono del loro lavoro sono oggi coinvolti in attività di rendita come assicurazioni sulla vita, affitti, piccole proprietà mobiliari e immobiliari, ecc. Uno degli effetti della ridistribuzione dei redditi negli anni del secondo dopoguerra è stato l’apparizione di una classe media patrimoniale che varia fra il 30% e il 40% della popolazione in Europa e negli Stati Uniti (17). La ridistribuzione ha premiato soprattutto questa classe, la quale, malgrado i processi di impoverimento generati dalle crisi succedutesi dagli anni Settanta a oggi, detiene tuttora un terzo del patrimonio nazionale dei Paesi occidentali. Questi strati sono alleati delle élite dei super ricchi, sia perché ne condividono parzialmente gli interessi, sia perché svolgono un importante ruolo simbolico, incarnando una promessa di mobilità sociale per gli strati inferiori, per cui rappresentano la base sociale ed elettorale del liberalismo: sia direttamente, sia attraverso la mediazione delle sinistre “liberal”.
IV Quale socialismo per il secolo XXI?
1. Mercato e socialismo sono incompatibili?
La definizione di economia di mercato è troppo generica per definire il capitalismo come formazione sociale, il mero scambio mercantile, infatti, è una prassi che può convivere con formazioni sociali precapitalistiche ma anche, come cercheremo di dimostrare, con formazioni sociali postcapitalistiche. Viceversa la definizione corretta del modo di produzione capitalistico è società di mercato nella misura in cui, diversamente da tutte le formazioni sociali che la hanno preceduta, fa dello scambio mercantile il fattore coattivo di tutti i rapporti sociali. Prima del capitalismo la motivazione del guadagno era stimolo principale, se non esclusivo, per un ristretto gruppo di persone, il lavoro salariato era relativamente poco diffuso, né esistevano istituzioni basate esclusivamente su finalità economiche. Solo nel XIX secolo si afferma una civiltà fondata sul mercato autoregolato e questa svolta dimostrerà che un simile assetto istituzionale può esistere solo distruggendo la società che colonizza, la quale è quindi costretta a difendersi da questa invasione che minaccia di annientarla. Polanyi ha descritto questo dispositivo (18), che impone di trasformare in merci la sostanza naturale ed umana (mercificazione della terra e del lavoro), paragonandolo ai più violenti scoppi di fervore religioso. In conclusione: un’economia di mercato può esistere solo in una società di mercato, vale a dire in una società colonizzata dal mercato.
Per sfuggire alla morsa mortale della società di mercato il compito più urgente consiste dunque nel separare il concetto di mercato da tutti gli elementi propri delle caratteristiche specifiche del capitalismo, occorre cioè reintrodurre la distinzione cruciale fra produzione mercantile e produzione capitalista. È quanto hanno cercato di fare tutte le rivoluzioni socialiste, ma la loro esperienza ha dimostrato che la sola eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione non è sufficiente a garantire la transizione al socialismo. Ciò ha indotto le sinistre postmoderne a condannare in blocco un secolo di eroici tentativi di superare il modo di produzione capitalistico, attribuendone il fallimento alla “fascinazione statalista” che, secondo la vulgata dei nouveaux philosophes e di certe sinistre “radicali”, sarebbe alle origini della degenerazione dei socialismi reali, vittime della burocratizzazione e di pratiche politiche “totalitarie”. Nell’ultima parte di questo scritto cercherò di dimostrare che nazionalizzazioni e statizzazioni restano al contrario una prima misura imprescindibile per avviare la transizione al socialismo. A consentire il passo ulteriore, la socializzazione, potrà essere solo la lotta di classe che, come ugualmente cercherò di dimostrare, è destinata a continuare dopo il rovesciamento del potere politico delle classi dominanti. Il socialismo è una via lunga da costruire man mano che si procede, inventando continuamente nuove soluzioni ai conflitti che di volta in volta si presentano.
Passiamo alle accuse di totalitarismo. È vero che solo dove l’individuo può autodeterminarsi l’ordine sociale può essere giusto? Dalle critiche che in precedenza abbiamo avanzato nei confronti dei principi della democrazia borghese, la risposta non può che essere negativa. Il socialismo si fonda su una cultura anti individualista, comunitaria, e la comunità non è mera intersezione degli interessi dei soggetti individuali ma interconnessione intersoggettiva. Dal punto di vista socialista il medium della libertà è il gruppo sociale in quanto totalità, una concezione che si potrebbe definire come una sorta di “individualismo olistico”, per usare la definizione cui Michéa ricorre per descrivere il punto di vista di Proudhon e di altri esponenti del socialismo utopistico (19). Eppure lo stesso Michéa non si discosta troppo dalle idee dei nouveaux philosophes - che pure disprezza – quando si scaglia contro tutte le forme di socialismo reale, definendole come regimi “criminali e liberticidi”. La contraddizione è apparente, ove si consideri che Michéa si professa vicino alla cultura libertaria, se non esplicitamente anarchica, per cui, pur respingendo come illusorie le libertà fondamentali di cui l’ideologia dei diritti umani rivendica l’esclusiva rappresentanza, ammonisce che disprezzandole “si rischia di cadere nelle tentazioni fasciste, staliniste o islamiste”. Nelle pagine seguenti cercheremo di capire se il socialismo del secolo XXI può imboccare una via alternativa a quelle delle libertà borghesi e del totalitarismo.
2. Il caso cinese. Socialismo o capitalismo di stato?
L'ultimo congresso del Partito Comunista Cinese |
Troskisti, operaisti e socialdemocratici negano con diverse argomentazioni il carattere socialista del regime cinese. Tuttavia non è necessario aderire a una di queste ideologie per condividere questo giudizio, come conferma il dibattito fra teorici marxisti di diverso orientamento. I più critici parlano di restaurazione del capitalismo se non di neoliberismo dalle caratteristiche cinesi; altri usano il termine capitalismo di stato, ma riconoscono che il persistere del conflitto di classe all’interno del Paese fa sì che il suo futuro possa evolvere in diverse direzioni; altri ancora preferiscono ricorrere alla definizione di economia socialista di mercato o socialismo di mercato; Arrighi, autore di quello che è il più approfondito studio teorico sull’enigma cinese (20), lo inquadra in una prospettiva di lungo periodo associata a una radicale ridefinizione degli equilibri economici e geopolitici planetari.
Personalmente penso che capitalismo di stato sia uno di quei termini passepartout che vogliono dire tutto e niente: che tipo di capitalismo? Che tipo di stato? Lenin replicava così a chi criticava la svolta della Nep: “il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato. Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano” (21). In altre parole: il problema non riguarda solo le forme di proprietà e l’organizzazione del processo produttivo ma chiama in causa la natura e gli obiettivi delle forze politiche che detengono il potere.
Che le riforme successive alla morte di Mao abbiano reintrodotto elementi di capitalismo in Cina è innegabile. Né sono contestabili gli effetti sociali di tale svolta: aumento delle disuguaglianze, tagli al welfare, esodo di vaste masse contadine – sottoposte a duri tassi di sfruttamento - e loro inurbazione con pesanti conseguenze ambientali. Basta per parlare di fine del socialismo? Per rispondere occorre interrogarsi sulle ragioni dei destini divergenti fra il sistema sovietico e quello cinese: perché il primo è crollato mentre il secondo è riuscito ad ascendere al rango di grande potenza mondiale? Tale successo è dovuto all’apertura alla mondializzazione e alla conseguente integrazione nel sistema capitalista mondiale, o è piuttosto fondato sul fatto che al suo interno permangono elementi di socialismo “in stile cinese”?
Iniziamo col dire che il “miracolo” cinese, partito negli anni 80 e progredito a ritmi stupefacenti fino ai giorni nostri, affonda le radici nell’epoca maoista, che ebbe il merito di effettuare giganteschi investimenti in irrigazioni, industria pesante, trasporti e infrastrutture, oltre a promuovere un enorme incremento dei livelli di educazione e un netto miglioramento delle condizioni generali di salute della popolazione. L’economia cinese era più dinamica di quella di altri paesi socialisti già prima della morte di Mao, grazie al fatto che non si è mai allineata al rigido centralismo sovietico, adottando forme più flessibili di pianificazione e lasciando fin dall’inizio margini di sviluppo ai settori governati dal mercato. Le riforme non sono quindi calate in un deserto ma su un terreno già dissodato e pronto a coglierne i benefici. Non meno rilevante il fatto che le riforme siano state graduali e costantemente monitorate e controllate dal partito, smentendo le profezie secondo cui l’ingresso nel WTO ne avrebbe scalzato il potere e costretto la Cina a omologarsi al capitalismo.
A tutt’oggi il sistema presenta molteplici forme di proprietà: imprese statali, cooperative, di proprietà collettiva (né pubblica né privata), imprese di città e di villaggio, mentre alcune imprese nominalmente private (come Huawei) hanno strutture che le rendono più simili a imprese statali (così come esistono imprese nominalmente statali ma di fatto private). In sintesi: ci troviamo di fronte a un continuum di forme proprietarie che difficilmente può essere inquadrato negli schemi classici. Naturalmente le forme proprietarie non sono l’unico criterio per decidere se un sistema sia o meno socialista. La questione di fondo consiste nel valutare se la presenza del mercato sia di per sé in grado di stabilire se un sistema è o non è socialista. Arrighi risponde negativamente a tale interrogativo, sostenendo che si possono aggiungere a volontà elementi di mercato in un sistema sociale ma, se e finché il mercato resta embedded in un sistema di relazioni politiche, sociali e culturali non capitaliste che ne lo orientano ad altre finalità, non si può parlare di capitalismo (22).
Se si assume tale punto di vista è difficile negare che in Cina persistano robusti elementi di socialismo: il paese mantiene una potente pianificazione, ancorché flessibilizzata; è dotato di un esteso sistema di servizi pubblici al di fuori del mercato; la terra resta in larga misura pubblica e garantisce l’accesso ai contadini; è un sistema misto con differenti forme di proprietà; tende a far crescere più rapidamente i redditi da lavoro rispetto ad altre fonti di reddito; ricerca sistematicamente la pace e rapporti equilibrati con altri popoli. Naturalmente siamo lontani dal realizzare una distribuzione relativamente egualitaria; per tacere dello stabilire un rapporto sostenibile con la natura. Ma questi e altri obiettivi sono la posta in palio di conflitti sociali e politici che, come riconosce lo stesso PCC, hanno attraversato la società, lo stato e il partito dal 1949 a oggi, e continueranno ad attraversarli in futuro.
Lo stesso David Harvey (23), mai particolarmente benevolo nei confronti del sistema cinese, nel suo ultimo lavoro ammette che la svolta del 1978 era obbligata, visto che nel Paese vivevano 850 milioni di cittadini in stato di estrema povertà, mentre i paesi circostanti si stavano sviluppando a ritmi accelerati. A partire dai rischi che questa situazione comportava per la stabilità del Paese, il partito ha applicato il principio secondo cui il regno della libertà inizia dove finisce quello della necessità, mettendo al primo posto l’obiettivo di assicurare al popolo una vita dignitosa. Con risultati stupefacenti: nel 2014 i poveri erano scesi a 14 milioni; la crisi del 2007/8 ha generato 30 milioni di disoccupati, ma il sistema è riuscito a riassorbirli in poco più di un anno! Inoltre i marxisti cinesi battono insistentemente sul tasto che la costruzione del socialismo è un processo secolare caratterizzato da avanzate e ritirate, di cui non è mai garantito il successo definitivo. Un punto di vista che suggerisce come il socialismo “dalle caratteristiche cinesi” non sia un orpello ideologico per giustificare le riforme pro mercato, ma rispecchi l’influenza che antiche tradizioni storiche – dall’etica confuciana, al centralismo delle istituzioni imperiali, al radicato senso comunitario e anti individualista del popolo cinese – esercitano tuttora sul peculiare modo di concepire il socialismo del regime di Pechino.
Ma che dire delle accuse di totalitarismo che i critici rivolgono alla Cina? Secondo lo studioso canadese Daniel A. Bell (24), il sistema cinese ha clamorosamente smentito la tesi secondo cui la democrazia di tipo occidentale è il sistema verso cui ogni Paese evolve “naturalmente”, a mano a mano che sviluppa un’economia di mercato e raggiunge diffusi livelli di benessere. Tutte le ricerche condotte sui cittadini cinesi rivelano che costoro non hanno una idea “procedurale” di democrazia, cui non attribuiscono alcun valore, ma si preoccupano assai più delle conseguenze positive che il loro sistema politico è in grado di produrre. Per il cinese comune, la democrazia non ha a che fare con i “principi” e i “valori” della democrazia liberale, ma si riferisce al grado di tutela e di sicurezza che lo stato e il partito sono in grado di garantire, al fatto se fanno o meno gli interessi della maggioranza del popolo, il che spiega perché il livello di legittimità del sistema politico cinese, grazie ai miglioramenti in termini di lotta alla povertà e di accesso ai servizi sociali, sia molto più alto di quello che i cittadini di molti Paesi occidentali riconoscono ai rispettivi governi.
Inoltre è falso che in Cina non esista alcun tipo di democrazia. Nel 1982 i comitati di villaggio e dei residenti sono stati istituzionalizzati come organismi di governo autonomo delle masse. A partire dal 1988 il governo ha introdotto elezioni dirette nei villaggi per combattere il fenomeno della corruzione, e dieci anni più tardi le elezioni dei comitati di villaggio sono divenute obbligatorie (nel 2008 novecento milioni di persone hanno esercitato il diritto di voto). Queste elezioni locali non vedono come protagoniste le organizzazioni di partito per cui possono essere considerati abbozzi di forme di democrazia diretta e partecipativa. Infine la classe operaia e contadina cinesi sono tutt’altro che prive di voce: quando vengono intaccati i loro interessi sono capaci di lottare duramente e di indurre lo stato e il partito a cambiare le proprie decisioni per mantenere il consenso (25).
Per definire questo modello di governance, Bell usa l’ossimoro di “meritocrazia democratica verticale” e, per spiegarne il significato, descrive dettagliatamente le procedure di selezione della leadership politica del PCC. La proverbiale durezza e competitività dei percorsi universitari è il primo ostacolo che devono affrontare sia i candidati alla carriera politica che a quella statale. Il passo successivo consiste nei non meno impegnativi esami per il pubblico impiego, dopodiché si può accedere ai livelli più bassi di governo, e ogni successiva promozione dipende esclusivamente dalla qualità delle prestazioni realizzate. Negli ultimi tempi, la formazione politica dei quadri del PCC prevede anche che trascorrano lunghi periodi in comunità rurali povere, una sorta di reminiscenza delle pratiche imposte nel periodo della Rivoluzione Culturale. Infine Bell enumera i vantaggi che tale sistema garantisce ai leader cinesi, ove messi a confronto con i leader occidentali selezionati attraverso le procedure liberal democratiche, richiamando l’attenzione sulla “vista corta” dei politici occidentali, condizionati dalle scadenze elettorali e dalla necessità di compiacere questa o quella tendenza dell’opinione pubblica, senza tenere conto degli interessi generali della società nel lungo periodo. Viceversa i leader cinesi possono impegnarsi in pianificazioni lungimiranti, svolgendo esperimenti che impiegano anni per dare frutti senza preoccuparsi delle elezioni successive.
Ovviamente il sistema non è esente da pecche: le disuguaglianze generate dalle riforme economiche hanno alimentato massicci fenomeni di corruzione che coinvolgono soprattutto i funzionari locali, in cerca di occasioni di arricchimento individuale, così come si è prodotto il fenomeno dei cosiddetti “principini”, cioè dei figli e nipoti dei politici che occupano posizioni gerarchiche elevate, il che permette loro di usufruire di vantaggi e agevolazioni di ogni tipo. Sono problemi che rischiano di minare il consenso popolare nei confronti del regime, ma lo stato cinese farà ogni sforzo per autoriformarsi senza discostarsi dai principi guida - democrazia dal basso, sperimentazione nel mezzo e meritocrazia al vertice – che ne ispirano l’azione, escludendo qualsiasi conversione alla democrazia liberale di tipo occidentale.
3. Può rinascere un progetto socialista in Occidente?
Le sinistre populiste occidentali, da Sanders a Corbyn, da Podemos a Mélenchon, pur avendo riesumato la parola socialismo che il crollo del Muro e quarant’anni di controrivoluzione liberista avevano rimosso dal lessico della politica, avanzano proposte simili alle politiche socialdemocratiche del trentennio glorioso. Si tratta di programmi politici che, a un primo esame, appaiono compatibili sia con il modo di produzione capitalista che con i suoi assetti istituzionali. Ma è davvero così?
La verità è che, mentre il modo di produzione fordista poteva permettersi il compromesso keynesiano fra capitale e lavoro, il capitalismo contro cui ci troviamo oggi a lottare non vuole – né potrebbe nemmeno se lo volesse - rinunciare ai frutti delle schiaccianti vittorie ottenute dagli anni Ottanta a oggi. Obiettivi come ri-nazionalizzare alcuni settori strategici e i servizi pubblici come la sanità e i trasporti; garantire a tutti l’accesso gratuito all’istruzione superiore e all’assistenza sanitaria; riattivare la separazione fra banche commerciali e banche di investimento; perseguire la piena occupazione; assicurare livelli salariali e pensionistici dignitosi; opporsi alle politiche austeritarie della Ue a trazione franco-tedesca, non sono “riforme” che il sistema potrebbe sopportare, ove ottenessero un consenso popolare tale da imporsi: sono una minaccia alle sue condizioni di sopravvivenza. Ecco perché i partiti italiani tradizionali hanno affibbiato l’etichetta di comunisti persino a formazioni come l’M5S, che non hanno mai nutrito velleità antisistema. Non è questione di propaganda elettorale: il punto è che decenni di controrivoluzione liberista hanno trasformato a tal punto l’economia, le relazioni sociali, le modalità di funzionamento delle istituzioni pubbliche e la stessa antropologia dei Paesi occidentali, da rendere i programmi appena evocati “sovversivi” a tutti gli effetti. Se vuole continuare a “guadagnare tempo”, per usare la metafora di Wolfgang Streeck (26), per fronteggiare la crisi, che con la pandemia del Covid19 sta raggiungendo l’apice, il capitale non può rinunciare ai risultati ottenuti grazie a decenni di “guerra di classe dall’alto” (27), una guerra che ha usato come armi di distruzione di massa la finanziarizzazione, la globalizzazione e l’economia del debito Una globalizzazione che non è stata il frutto di “leggi” economiche, bensì un disegno politico volto a distruggere i rapporti di forza del proletariato americano ed europeo attraverso l’arruolamento di sterminate masse di neo salariati a basso costo nei Paesi in via di sviluppo, e un’economia del debito che è decollata quando tutti i governi occidentali hanno adottato politiche di riduzione della pressione fiscale nei confronti delle corporation e dei detentori di grandi patrimoni mobiliari e immobiliari. Il combinato disposto delle politiche di detassazione e dell’evasione fiscale ha aperto buchi spaventosi nelle casse degli Stati nazione, dopodiché gli stessi capitali che avevano provocato la crescita del debito pubblico, lo hanno finanziato, ricavandone interessi che contribuivano a loro volta a farlo lievitare. Nel frattempo cresceva anche il debito privato perché, per sostenere i consumi malgrado il calo dei salari, si doveva incoraggiare l’indebitamento dei salariati. Quando la bolla immobiliare del 2007/2008 ha inceppato il meccanismo, si è reagito con nuovi tagli alla spesa pubblica, con massicce privatizzazioni di beni comuni e servizi pubblici e con una serie di “riforme” del diritto del lavoro che hanno ulteriormente ridotto il potere contrattuale della forza lavoro. Una politica dell’austerità che ha trovato la sua più rigorosa applicazione nelle politiche ordoliberiste della Ue a trazione tedesca e che, dopo avere messo in ginocchio il popolo greco, minaccia di fare altrettanto con gli altri popoli mediterranei costretti ad indebitarsi per ricostruire i sistemi produttivi devastati dalla pandemia.
Di fronte a questa situazione, che minaccia di scatenare la rabbia popolare, il buon senso sembrerebbe suggerire il ritorno a politiche economiche neokeynesiane. Il guaio è che questo capitalismo, se vuole sopravvivere – non può invertire la rotta proprio nel momento in cui il processo di globalizzazione entra in crisi, ritornano il protezionismo e i conflitti fra nazioni e blocchi regionali per il controllo dei mercati e la Cina, che per decenni era stata la soluzione al problema delle crisi occidentali, minaccia di trasformarsi in un incubo a mano a mano che la sua crescita diviene autocentrata. Ecco perché riforme come quelle elencate in precedenza non sono un banale “programma minimo” ma rappresentano una minaccia mortale per la forma di capitalismo che si è affermata negli ultimi decenni. Ancorché moderata questa versione di socialismo, è incompatibile sia con l’attuale sistema economico, sia con le istituzioni politiche e giuridiche che ne garantiscono la riproduzione. Ecco perché andare al governo non basta: occorre cambiare le strutture stesse e i meccanismi di funzionamento del potere politico e, di fronte a una simile minaccia, il sistema reagirebbe con la stessa durezza con cui in passato ha reagito a progetti rivoluzionari assai più radicali. Le sinistre tradizionali non sono in grado (né si propongono) di lanciare una simile sfida. Lo stesso vale per i populismi di sinistra, che hanno perso progressivamente slancio e annacquato le velleità antisistemiche. E allora? Che composizione di classe dovrebbe avere un blocco sociale capace di sostenere un simile progetto di cambiamento? Che forme politiche e istituzionali dovrebbe darsi? A che ideologia dovrebbe ispirarsi?
Il primo passo è sbarazzarsi dell’ideologia libertaria, antistatalista e antipolitica che le sinistre di movimento hanno progressivamente adottato a partire dalla fine degli anni Settanta, fino a rinunciare del tutto agli obiettivi delle lotte sociali, rimpiazzati dalle rivendicazioni dei diritti individuali e civili (28). Parliamo di movimenti che rifiutano a priori di lottare per conquistare il potere politico – che considerano malvagio in quanto tale – preferendo agire come gruppi di pressione in grado di limitarlo e controllarlo (29) che si schierano con l’Occidente contro Paesi come la Cina, Cuba e il Venezuela; che condividono un’ideologia cosmopolita che nulla a che fare con la tradizione internazionalista del movimento operaio; che concepiscono l’ambientalismo come appoggio a un capitalismo “ecologicamente responsabile”; che, salvo quelle minoranze che mantengono posizioni anticapitaliste, concepiscono il femminismo come lotta per il riconoscimento identitario e la parità di genere all’interno delle regole del mercato capitalistico e delle istituzioni politiche liberal democratiche.
Analizzare le ragioni della crisi dei populismi di sinistra ci offre invece spunti preziosi per abbozzare una risposta alla domanda sulla composizione del blocco sociale. Ho già affermato, nel paragrafo precedente, che a mio avviso costruire il blocco sociale significa in primo luogo ri-costruire l’unità delle classi lavoratrici. Ho ugualmente affermato che ritengo il problema delle alleanze secondario rispetto a tale compito, e che esso dovrà comunque essere affrontato compiendo un’accurata analisi delle contraddizioni interne alle classi medie, separando gli strati inferiori che più hanno subito i contraccolpi della crisi, dagli strati medioalti che restano agganciati al blocco egemone delle classi dominanti. Di questi strati non integrabili nel blocco antagonista, fanno parte quelle “classi medie riflessive” che costituiscono la base sociale delle sinistre radicali, ed è appunto qui che affonda le radici l’arretramento dei populismi di sinistra, nato nel momento in cui hanno scelto di privilegiare le alleanze con il ceto medio e le sinistre liberal che ne incarnano umori e culture rispetto all’ardua impresa organizzativa, ideologica e culturale di ricompattare le classi lavoratrici. Si è scelto, cioè, di privilegiare quei soggetti che si immaginava potessero garantire una rapida vittoria elettorale, evitando il lavoro lento e faticoso di costruire una massa critica in grado di cambiare realmente le cose. Si è scelta una scorciatoia “governista” e “comunicazionista”, che spalancasse le porte del governo, senza porsi il problema di cosa fare una volta raggiungo l’obiettivo. Si è nutrita l’illusione di poter realizzare una rivoluzione “a tappe”, prima andando al governo e poi tentando di cambiare dall’interno le strutture dello Stato, per renderle funzionali alla transizione verso una società postcapitalista.
Qual è l’alternativa? Non ho ricette miracolistiche da offrire. Mi sento solo di dire che occorre trovare un passaggio fra la tentazione di riproporre ricette anacronistiche quali la costruzione di un partito di rivoluzionari di professione e la tentazione di insistere sulla via del movimentismo, del rifiuto a priori della forma partito e della lotta per il potere. Occorrerà procedere per tentativi ed errori, sperimentando diverse soluzioni. Ricostruire la classe e ricostruire un partito di classe sono compiti che si presentano come strettamente intrecciati l’uno con l’altro. Ma soprattutto dovranno essere evitati sia gli eccessi di verticalizzazione – come il rapporto diretto fra leader e masse tipico dei populismi – sia gli eccessi di orizzontalismo – come l’assemblearismo e il localismo. Il vuoto spaventoso di cultura politica creato da decenni di egemonia liberista, dovrà poi essere colmato con un poderoso sforzo di formazione dei militanti, in modo che fra base e vertice si formi un robusto strato di quadri intermedi capaci di sfornare alternative ai gruppi dirigenti. Analoghi criteri valgono, a mio avviso, per definire un progetto di riforma dello Stato: stabilito che i programmi “riformisti” richiamati in precedenza assumono, nel contesto dell’attuale sistema, un carattere sovversivo e una coloritura socialista, e che quindi potranno realizzarsi solo in presenza di una radicale crisi non solo economica e sociale ma anche istituzionale, è evidente che chi andasse al potere in simili circostanze avrebbe il compito di rivoltare da cima a fondo le strutture dell’organizzazione statale.
Sento già le obiezioni dei libertari contro questa mia visione “statalista”: una volta conquistato il potere sarà impossibile evitare degenerazioni autoritarie. Replico ripetendo quanto ho scritto nel mio ultimo libro (30): l’unico modo per evitarle è la creazione di contrappesi sociali autonomi, dando vita a istituzioni popolari di democrazia diretta e partecipativa che dovrebbero essere esterne e autonome rispetto a quelle della democrazia rappresentativa e agli organi statali, in modo da potersi contrapporre alle loro decisioni, che dovrebbero cioè godere del diritto, costituzionalmente sancito, di esercitare il conflitto nei confronti dello Stato.
Note
1 Cfr. Formenti, C., Romano, O. Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi, Roma 2019.
2 Cfr. Amin, S., L’implosion du capitalisme contemporain, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar, 2014; vedi anche Classe et nation, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2015.
3 Cfr. Zhok, A., Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2019.
4 Ibidem.
5 Cfr. Rodotà, S., Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.
6 Cfr. Crouch, C. Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003; vedi anche Quanto capitalismo può sopportare la società, Laterza, Roma-Bari 2014.
7 Cfr. Streeck, W., Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.
8 Vedi, in particolare, Linera A. G., Forma valor y forma comunidad, Traficantes de sueños, Quito 2015 e, dello stesso autore, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.
9 Cfr. Visalli, A., Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.
10 Cfr. Harvey, D., The Anti-Capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.
11 Cfr. Tronti, M., Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.
12 Questa è la tesi di Antonio Negri, ribadita in tutte le sue opere da Impero in poi, condivisa da André Gorz (vedi Miserie del presente, ricchezza del possibile, manifestolibri, Roma 1998) e da vari autori di scuola neo-post operaista.
13 Cfr. Guilluy, C., la France périphérique, Flammarion, Paris 2014.
14 Cfr. Michéa, J. C., Il lupo nell’ovile, Meltemi, Milano 2020.
15 Vedi, in particolare, La ragione populista (Laterza, Roma-Bari 2008) e Le fondamenta retoriche della società, (Mimesis, Milano 2017).
16 E’ quanto ho sostenuto ne La variante populista (DeriveApprodi, Roma 2016) e in Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi Milano 2019).
17 Cfr. T. Piketty, Le capital au XXI siécle, Seuil, Paris 2013.
18 Nel suo capolavoro la grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
19 Cfr, op. cit.
20 Mi riferisco a Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2008.
21 Citato in A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, Springer, Berlino 2020.
22 Cfr. op. cit.
23 Cfr. il libro citato alla nota 10.
24 Cfr. Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019.
25 Vedi in proposito quanto scrive Raffaele Sciortino nel suo contributo a questo volume.
26 Cfr. nota 7.
27 Mi riferisco alla nota definizione di Gallino, L., La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
28 Cfr. Boltanski, L., Chiapello, E., Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano 2014.
29 Cfr. Rosanvallon, P., Controdemocrazia, Castelvecchi, Roma 2012; vedi anche, dello stesso autore, La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma 2013.
30 Il socialismo è morto, cit.
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