Lettori fissi

domenica 14 marzo 2021



GLOSSE ALLA “ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE” DI G. LUKACS (I) 


Nota introduttiva 

L’ultima opera del più grande filosofo marxista del 900 (Gyorgy Lukacs, 1885 – 1971) è di gran lunga la meno conosciuta. Alla Ontologia dell’essere sociale Lukacs iniziò a lavorare nel 1960, subito dopo avere concluso  la sua Estetica, ma non fu pubblicata che diversi anni dopo la morte (in due volumi usciti, rispettivamente, nel 1984 e nel 1986). L’edizione italiana (uscita assai più tardi, nel 2012, per i tipi di PGRECO) si articola in quattro volumi, il primo dei quali contiene i Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale che in realtà fu scritto per ultimo, per sintetizzare e chiarire i concetti dell’opera principale (sia perché Lukacs non era soddisfatto della struttura espositiva che le aveva dato, sia per replicare alle critiche e alle osservazioni che gli erano state fatte da alcuni allievi). Questo ritardo non è tuttavia il solo né l’unico motivo per cui il pensiero dell’ultimo Lukacs continua ad essere meno conosciuto di quello dei suoi lavori “classici”, come Storia e coscienza di classe (1) o La Distruzione della ragione (2). A questa “rimozione” contribuirono infatti tanto la sua collocazione in un’epoca storica caratterizzata da una profonda crisi del marxismo, quanto le critiche sfavorevoli che un gruppo degli allievi di Lukacs – fra cui Agnes Heller, oggi nume tutelare del pensiero liberale – fecero circolare sulla Ontologia prima che l’opera venisse pubblicata (3). Senza dimenticare il non trascurabile impegno richiesto dalla lettura di un testo complesso e lungo quasi 2000 pagine.  

Nella sua Introduzione, Nicolas Tertulian richiama l’attenzione su alcuni dei temi principali affrontati dall’autore. In particolare, si concentra sulla critica tanto di quelle interpretazioni del pensiero marxiano che attribuiscono alla storia la natura di un processo teleologico governato da una ferrea necessità immanente, per cui ogni fase di sviluppo rappresenterebbe una tappa verso un esito predeterminato, quanto di quelle che lo associano a una sorta di determinismo univoco dei fattori economici. Questa visione determinista/meccanicista, che trova la sua massima espressione nell’ideologia staliniana, per Lukacs affonda le radici nel pensiero dello stesso Engels, sensibile al fascino del “logicismo” hegeliano. Contro questa visione, Lukacs rivendica, da un lato, la necessità di riconoscere il peso dei fattori casuali, dall’altro, riformula il dispositivo della necessità storica in base alla formula se…allora, con la quale intende significare che, al cambiare di certe premesse che si possono dare in modo imprevisto e casuale, il corso dei fenomeni storici può mutare, per cui la razionalità del loro esito non può essere definita a priori – in base a presunte “leggi” – ma solo post festum.

Questo punto di vista gli consente di rappresentare la società come un “complesso di complessi”, dove ogni complesso (il diritto, la politica, la religione, l’arte, ecc.) mantiene una sua relativa autonomia, pur non potendo sottrarsi mai del tutto alla sovradeterminazione da parte della potenza “soverchiante” del complesso economico. I margini di libertà dell’agire umano vengono così ridefiniti in base al detto marxiano (citato molte volte nel testo dell’opera) secondo cui gli esseri umani “non sanno di far ciò ma lo fanno”. Detto altrimenti: i processi sociali vengono messi in atto dagli atti teleologici degli individui, ma la loro risultante finale ha un carattere causale privo di connotazioni finalistiche, il risultato delle azioni non è cioè mai coestensivo alle intenzioni. 

Sorvolando su altri temi evidenziati dalla Introduzione di Tertulian – come le critiche al neopositivismo e all’esistenzialismo, o le pagine dedicate al superamento dell’estraniazione e al comunismo come realizzazione di una humanitas autentica – provo a spiegare perché ho deciso di imbarcarmi in questo impegnativo commentario alla Ontologia dell’essere sociale. In effetti, la lettura di quest’opera mi ha ridato fiducia nella possibilità di restituire al marxismo la sua carica rivoluzionaria, a condizione che lo si liberi, sia dalle varianti dogmatiche che ne hanno imbrigliato l’energia, sia dalle nebbie di molte interpretazioni “innovative”. Dal testo che segue non dovete aspettarvi dissertazioni accademiche né raffinatezze filologiche (del resto non ne sarei all’altezza), bensì lo sforzo di “estrarre” da alcuni dei passaggi che mi hanno più intrigato durante la lettura dei quattro volumi dell’opera, una serie di riflessioni relative alle grandi sfide di fronte alle quali ci pone la realtà contemporanea. Il testo è strutturato in cinque sezioni: 1. Il lavoro come modello di ogni prassi sociale; 2. Critica del materialismo meccanicista; 3) Se…allora (storia e necessità); 4) Ideologia e lotta di classe; 5) Libertà, utopia, socialismo. La prima è la più breve, la seconda e la terza sono accorpate in un unico capitolo, la quarta è la quinta sono le più lunghe, in quanto più gravide di implicazioni politiche. Quindi a questa prima puntata, ne seguiranno altre tre in tutto.

PS. Reitero un’avvertenza già fatta in post precedenti: non essendo riuscito a impadronirmi pienamente delle funzioni di formattazione di questa piattaforma, molte traslitterazioni di nomi stranieri ( a partire da quello di Gyorgy Lukacs) risulteranno scorrete. Me ne scuso con i lettori.   


1. Il lavoro come modello di ogni prassi sociale 

I tentativi di depurare il pensiero di Marx dai suoi fondamenti filosofico – antropologici, per estrarne il presunto  contenuto “scientifico” (sulla scientificità del marxismo avremo modo di ragionare più avanti) - contenuto che viene in questo modo ridotto alla descrizione delle modalità di funzionamento del modo di produzione capitalistico e dei meccanismi causali delle crisi economiche – sono del tutto incompatibili con l’approccio di Lukacs all’opera del maestro. Il contributo di Marx alla comprensione del fenomeno sociale, sostiene Lukacs, può essere compreso solo se si capisce che, per lui, il lavoro è “la categoria centrale in cui tutte le altre determinazioni si presentano in nuce”. E il lavoro di cui parla qui Lukacs non si identifica con la forma storicamente determinata che esso assume nella società capitalistica: è piuttosto il lavoro utile, il lavoro come formatore di valori d’uso che, scrive Marx citato da Lukacs, è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini  (vol. II, p. 265). 

Per Marx, sostiene dunque Lukacs, il lavoro non è una delle tante forme fenomeniche della teleologia (cioè dell’agire finalistico) in generale, ma l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale  (vol. III, p. 23). Il ricambio organico fra uomo e natura differisce da quello delle altre specie viventi in quanto non è governato dall’istinto, ma dalla posizione consapevole dello scopo, ed è appunto per questa via che l’agire finalistico entra a far parte della realtà materiale, perdendo l’aura di fenomeno trascendente, ideale. È in questo senso, argomenta Lukacs, che si può affermare che, per Marx, il lavoro risulta il modello di ogni prassi sociale (vol. III, p. 19). Ed è in base a questo assunto che la definizione del pensiero marxiano come “filosofia della prassi” assume il suo significato più corretto e rigoroso. 

La critica di Marx al materialismo feuerbachiano consiste precisamente nell’essersi limitato alla mera intuizione, evitando di scendere sul terreno della prassi. La critica di Marx all’idealismo è invece una critica ontologica, in quanto parte dal principio che l’essere sociale, in quanto adattamento attivo dell’uomo al proprio ambiente, poggia primariamente e insopprimibilmente sulla prassi (vol. I, p. 36). Lukacs torna su questa visione concreto-ontica delle entità sociali ragionando sui Manoscritti economico-filosofici, a proposito dei quali scrive che in essi per la prima volta nella storia della filosofia le categorie dell’economia compaiono come quelle della produzione e riproduzione della vita umana e rendono così possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica, per aggiungere subito dopo ma la economia come centro dell’ontologia marxiana non significa affatto che la sua immagine del mondo sia fondata sull’<<economismo>> (vol. II, p. 264). 

L’ultima affermazione (della quale è impossibile sopravalutare l’importanza, e sulla quale dovremo ritornare a più riprese nelle sezioni successive), trova riscontro in un passaggio in cui Lukacs sottolinea che considerando così isolatamente il lavoro si compie un’astrazione, infatti la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono bensì dal lavoro, non però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente (vol. III, p. 14). Tutte le categorie appena evocate appaiono dunque avvinte in un intreccio inestricabile, per cui nessuna di esse può essere realmente compresa ove la si consideri isolata dalle altre. Al tempo stesso, non vanno dimenticati, da un lato, la loro scaturigine originaria dal lavoro, dall’altro lato, che il fatto che il lavoro continui a essere il momento soverchiante non solo non sopprime queste interazioni ma al contrario le rafforza e le intensifica (vol. III, p. 58). 

Quest’ultimo passaggio consente di chiarire meglio e approfondire quanto richiamato in precedenza in relazione al concetto del lavoro come unico momento che attribuisce concretezza ontologica al porre teleologico. Lo stesso dicasi di quest’altra citazione:  Solamente nel lavoro, quando pone il fine e i suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente, - dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano la natura – ma invece un compiere trasformazioni  nella natura stessa che a partire di qui, dalla natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili e (a partire da questo momento, la coscienza) non può più essere ontologicamente un epifenomeno. Ed è questa constatazione che separa il materialismo dialettico da quello meccanicistico (Vol. III, p. 35).

Dando per acquisite le argomentazioni che ho appena sinteticamente evocato, Lukacs procede a descrivere le relazioni dialettiche fra il lavoro da un lato, e il suo fine e il suo mezzo dall’altro: In ogni singolo processo lavorativo concreto il fine domina e regola i mezzi. Se però guardiamo ai processi lavorativi nella loro continuità ed evoluzione storica entro i complessi reali dell’essere sociale, abbiamo una certa inversione di questo rapporto gerarchico, che se non è certamente assoluta e totale, è purtuttavia di estrema importanza per lo sviluppo della società e dell’umanità (vol. III, p. 29). In questo accenno all’inversione gerarchica fra fini e mezzi sono contenuti in nuce tutti i discorsi sull’alienazione e sull’ambiente tecnologico come “seconda natura” (per inciso Lukacs non ama quest’ultimo concetto che, a suo avviso, ha valore meramente metaforico). L’ipertrofica valorizzazione del mezzo è conseguenza del fatto che la ricerca sulla natura, indispensabile per lavorare, è prima di tutto concentrata intorno alla preparazione dei mezzi, sono questi il principale veicolo della garanzia sociale che i risultati dei processi lavorativi rimangano fissati, che vi sia continuità nell’esperienza lavorativa e specialmente che si abbia un suo ulteriore sviluppo (Ivi).  

Di grande interesse mi pare inoltre: 1) il fatto che Lukacs non rappresenta questi sviluppi come esclusivi delle fasi più avanzate dell’evoluzione dell’essere sociale, ma li considera già presenti delle sue fasi primitive; 2) il fatto che ogni ulteriore avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza, mentre influisce profondamente sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, non ne neutralizza mai la sovradeterminazione da parte del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura. Vediamo:  L’uomo che lavora deve pianificare in anticipo ciascuno dei suoi movimenti e controllare di continuo criticamente, consapevolmente la realizzazione del suo piano, se nel suo lavoro vuole ottenere quel che è in concreto l’ottimo possibile. Questo dominio della coscienza l’uomo sul proprio corpo, che si estende anche a una parte della sfera della coscienza, alle abitudini, agli istinti, agli affetti, è una richiesta elementare dello stesso lavoro più primitivo, non può quindi non marcare a fondo le rappresentazioni che l’uomo si fa su se stesso (vol. III, p. 104). Ma se occorre ammettere che la posizione teleologica di causalità nel processo lavorativo produce questi radicali effetti trasformatori, va anche ricordato che per quanto rilevanti siano questi ultimi, la barriera naturale può solo arretrare, mai scomparire completamente (vol. III, p. 103). Infine, la posizione dei fini - mediata dal progredire della coscienza e del linguaggio, che operano come fattori di separazione e distacco dell’uomo dal suo ambiente, di una presa di distanza che si manifesta con chiarezza nel fronteggiarsi di soggetto e oggetto (vol. III, p. 38) – impone continue scelte fra alternative che, tuttavia, non sono prodotte dal soggetto che decide, ma dall’essere sociale in cui vive e opera (vol. III, p. 48). 

Gyorgy Lukacs


Glosse 

1) Ribadire la centralità del lavoro come ricambio organico uomo–natura, cioè del lavoro creatore dei valori d’uso, in quanto fondamento di ogni visione materialistica dell’essere sociale è una scelta che comporta conseguenze impegnative sotto diversi aspetti filosofici, politici e ideologici. In primo luogo, significa riconoscere implicitamente la eccezionalità della società capitalistica rispetto a tutte le forme sociali che l’hanno preceduta (e presumibilmente a tutte quelle che la seguiranno) nella misura in cui è l’unica che occulta tale fondamento concreto-ontico del lavoro per ridurlo, da un lato, a merce forza-lavoro, dall’altro a fonte del valore di scambio, cioè a valore-lavoro incorporato nelle merci da realizzare tramite scambio sul mercato (4).

Rimuovere questa premessa filosofica è stata una mossa comune a tutte quelle interpretazioni del pensiero marxiano – da Althusser a Negri, per citarne solo un paio – che hanno teso a svalorizzarne gli elementi “metafisici” (generalmente associati alle opere giovanili e contrapposti al pensiero “maturo” del Capitale e dei Grundrisse) e ad esaltare la “scientificità” delle categorie della critica dell’economia politica. La riduzione del contributo di Marx alla modellizzazione concettuale del modo di produzione capitalistico ha avuto, fra le altre conseguenze, quella di fondare ogni speranza emancipativa del lavoro – inteso esclusivamente come forza-lavoro integrata nel processo di valorizzazione del capitale – sulle contraddizioni immanenti al modo di produzione. Di qui la valutazione del ruolo progressivo della riduzione di tutte le relazioni sociali a relazioni di mercato, in quanto presupposto necessario del rovesciamento dei rapporti di forza fra lavoro e capitale (in sostanza, l’idea è che solo quando tutto sarà interno al rapporto di capitale sarà possibile rovesciare quest’ultimo). 

L’elenco delle conseguenze di tale postura teorica è lungo. Mi limito ad elencare quelle che ritengo particolarmente perniciose. L’invenzione di categorie spurie come quella di “lavoro immateriale” (5) (riferita, in particolare, all’attività dei lavoratori dell’economia digitale, con la paradossale rimozione, da un lato, del lavoro materiale dei milioni di lavoratori dell’industria della componentistica hardware e di quelli delle industrie estrattive delle materie prime indispensabili per tali attività, dall’altro, del lavoro corporeo degli stessi lavoratori presunti immateriali). Le varie declinazioni ideologiche del cosiddetto “rifiuto del lavoro” (6) che, dall’originario significato di rivolta operaia contro il lavoro alienato e ripetitivo, sono venute estendendosi fino ad affermare la possibilità (garantita dall’enorme sviluppo delle forze produttive) di trascendere la necessità stessa del ricambio organico uomo-natura. Corollari di questa negazione del principio enucleato da Lukacs e richiamato in precedenza (per quanto radicali siano le trasformazioni indotte dal distanziamento progressivo fra soggetto e oggetto, “la barriera naturale può solo arretrare ma mai sparire completamente”) – sono tanto la mitologizzazione dell’illimitata potenza trasformativa delle conoscenze scientifiche e tecnologiche (fino al trascendimento delle stesse caratteristiche della specie verso forme di vita “transumane”), quanto la condivisione, da parte di alcuni intellettuali appartenenti alle sinistre “radicali”, degli slogan dei boss dell’industria high tech, i quali propongono di risolvere i problemi occupazionali generati dalla “fine del lavoro” (7) attraverso l’erogazione di un reddito universale non  condizionato dallo svolgimento di attività lavorative – punto di vista che confonde emancipazione del lavoro ed emancipazione dal lavoro, per cui quest’ultima si presenta come apologia del consumo (8), ignorando sia il ruolo del lavoro come autorealizzazione e costruzione identitaria individuali e collettive, sia la necessità di liberare il valore d’uso dalle distorsioni causate dalla sua riduzione a valore di scambio. 

2) Gli spunti critici relativi all’economismo e al materialismo meccanicistico, contenuti nelle citazioni precedenti, verranno trattati, rispettivamente nelle sezioni 2) e 3). Quanto a quelli relativi alle autorappresentazioni che gli esseri umani sviluppano parallelamente al crescere della complessità dell’essere sociale, verranno trattati nelle sezioni 4) e 5). Restando in tema di complessità, osservo inoltre che la rappresentazione dell’essere sociale come “complesso di complessi” (vedi sopra “Nota introduttiva”) ognuno dei quali dotato di reciproca autonomia, ma al tempo stesso vincolato dalle relazioni di interdipendenza reciproca con tutti gli altri, presenta significative analogie con la rappresentazione del sociale come sistema complesso articolato in sottosistemi, proposta da un autore come Niklas Luhmann (9), con la differenza che, in Lukacs, i complessi non si dispongono secondo un piano orizzontale privo di relazioni gerarchiche ma appaiono sovradeterminati (ancorché in modo indiretto e non meccanico) dal complesso economico. 

3) Anche i passaggi sull’inversione del rapporto gerarchico fra fini e mezzi del processo lavorativo – che, come si è visto, secondo Lukacs, è una tendenza presente fin dalle fasi più primitive dello sviluppo sociale, ma assume importanza crescente in quelle più recenti e progredite – verranno ripresi e approfonditi nelle ultime due sezioni. Qui mi limito ad affermare che il modo in cui Lukacs affronta il tema mi pare presenti una certa analogia con il concetto di alienazione tecnologica sviluppato dai membri della Scuola di Francoforte e altri autori a lui contemporanei. L’approccio di Lukacs, tuttavia, non è mai “catastrofista” - alla Gunther Anders (10) per intenderci -, nel senso che la sua critica nei confronti del feticismo della tecnica non approda mai alla negazione assoluta del potenziale emancipativo di quest’ultima. Al tempo stesso, non rinuncia mai a evidenziare la relazione fra sviluppo tecnologico e rapporti di forza fra le classi sociali, né scade mai nelle forme di esaltazione acritica dello sviluppo delle forze produttive tipico sia del materialismo meccanicista, sia dell’ideologia “accelerazionista” di alcune correnti contemporanee di sinistra radicale (11).  


Note  

(1) G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, Tasco, Milano 1997.

(2) G. Lukacs, La distruzione della ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011.

(3) Ricavo questa e altre informazioni riportate in questa Nota introduttiva dalla Introduzione di N. Tertulian a G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), PGRECO, Milano 2012.

(4) Sul capitalismo come forma sociale sui generis, diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta, cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.

(5) Vedi, in particolare, A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 

(6) Lo slogan del rifiuto del lavoro è uno dei leitmotiv dell’ideologia operaista e post operaista dagli anni Settanta ai giorni nostri. 

(7) Cfr. J. Rifkin, La fine del lavoro, Mondadori, Milano 2002. In anni recenti anni il tema non è più di moda, anche perché la realtà ha dimostrato che tale tendenza è letteralmente inesistente a livello globale – il lavoro salariato è cresciuto a livelli esponenziali su scala mondiale nei primi decenni del Duemila – e meno significativo del previsto anche nei Paesi occidentali più sviluppati, dove si assiste piuttosto alla proliferazione dei lavori precari, saltuari e sottopagati, e dove anche il fenomeno della cosiddetta deindustrializzazione è contestato (vedi in proposito le critiche di David Harvey in The Anti-capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020).   

(8) Evidenti elementi di apologia del consumo (intesa come rivendicazione di elevati livelli di consumo a prescindere dall’utilità e/o dalla nocività dei beni e servizi consumati, nonché dalla loro rispondenza a effettivi bisogni individuali e collettivi) sono riscontrabili sia nell’ideologia dei movimenti di ispirazione operaista e postoperaista, sia nelle filosofie “desideranti” di autori come Gilles Deleuze e Felix Guattari (cfr. in merito le critiche di P. Dardot e C. Laval ne La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2013), sia infine nelle “teorie dei bisogni” in auge negli anni Settanta/Ottanta (vedi  A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli, Milano 1977).

(9) Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979;  vedi anche Illuminismo sociologico, il Saggiatore,  Milano 1983 e Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983. 

(10) Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 1956. 

(11) Cfr. A. Williams, R. Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza, Roma-Bari 2018.       


    


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